8.9.20

Festival del Cinema di Venezia 2020 - Giornate 4,5 e 6


Secondo appuntamento con i nostri resoconti da Venezia!
Ci sono un sacco di film, buona lettura

(aggiusteremo i problemi di interlinea quanto prima)

TOMMASO FERRERO

The man who sold his skin - Kaouther Ben Hania, Tunisia  

Un giovane rifugiato siriano decide di diventare un’opera d’arte vivente pur di raggiungere l’Europa, precisamente Bruxellles, dove la sua amata vive con un marito scelto dalla famiglia. Questa in soldoni è la trama di un film che decide di intrecciare due temi molto spinosi: cosa sia l’arte e quanto conti l’essere umano (o perlomeno le differenze di importanza fra diversi esseri umani). Li tratta in maniera nemmeno velata, anzi li dichiara provocativamente l’artista che nel film tatua la schiena del protagonista, ma non risulta retorico. Un finale molto all’acqua di rose però impedisce di godere del film nella sua totalità, anche se mantiene, oltre a un interessantissimo incipit, dei personaggi ricchi e un protagonista imperfettamente empatico. La sua storia d’amore dopotutto è il traino del film, è impossibile non amare i suoi capricci e i suoi sbalzi d’umore.  

The Duke – Roger Michell, Inghilterra  

Credo che chiunque viva in un paese come me abbia, almeno una volta nella vita, incontrato un personaggio come il protagonista di The Duke. Un uomo disoccupato, ma che fa delle lotte sociali più assurde il suo pane quotidiano. Quel vicino che non paga il canone perché “Tanto la tv non la guardo”, quello che non accetta l’impiego dei soldi del comune per far piantare delle aiuole fuori stagione. Insomma, uno che i cazzi suoi mai. Però in The Duke il protagonista (Jim Broadbent) è troppo inglese per non essere amato. La sua lotta sociale passa a un livello successivo quando, per ottenere un’agevolazione sul canone tv per i pensionati, ruba il ritratto del duca di Wellington. La commedia scivola bene, con uno humor mai fastidioso, anzi, riesce a intrecciare il comico col drammatico senza sbavature. Ovviamente non si parla di un capolavoro, ma di un film che nella sua anglosassone linearità regala quasi due ore di piacere. Alla fine, all’uscita dalla sala, avevo un dolce ed ebete sorriso in faccia. Quasi quasi smetto di pagare il canone.  

Miss Marx – Susanna Nicchiarelli, Italia  

Premetto che a me la Nicchiarelli non sta un gran simpatica. Premetto anche che Nico l’ho apprezzato tantissimo. Per questo in fondo mi dispiace, ma ci godo, che Miss Marx, a mio avviso, sia così insulso. Miss Marx, come dice il nome, racconta di Tussy Marx, la figlia di Karl, che per tutta la sua vita si è battuta per i diritti delle donne e dei lavoratori, ma che nella vita privata è stata sempre sottomessa, per scelta d’amore, a un uomo che la trattava come una bambolina. E nulla, il film si riempie di grandi temi che vengono però solo accennati e, se non accennati, Rappresentati con retoricissimi monologhi (immagino tratti dagli scritti della stessa Marx) ai quali la Nicchiarelli non aggiunge alcuna rielaborazione. La figura protagonista è volubile, spesso debole, il che sarebbe apprezzabile se non fosse poi rappresentata come una eroina che balla a suono di punk rock. Il film ha però un confezionamento pregevolissimo, con bellissime scenografie d’interni e una colonna sonora di gran livello. Un film che voleva essere estremamente rock, ma che, in fondo, puzza di vecchio.  

La Troisieme Guerre - Giovanni Aloi, Francia  

Sono entrato in sala con delle belle aspettative, poi ne sono uscito deluso. Non che il film sia brutto, anzi è girato bene, con ottimi interpreti e una buona regia per un esordio. Semplicemente non è un film che mi ha comunicato molto. Un giovane soldato dell’esercito francese, figlio di una madre alcolizzata, si traferisce a Parigi e vive le sue prime ronde per la città, dove la guerra al terrorismo diventa per lui un’ossessione. Non c’è molto da dire. La storia si sviluppa in maniera abbastanza piatta, ci sono alcuni punti di eccezionale tensione e Aloi ci fa entrare fin da subito nel clima di minaccia costante che vive il protagonista. Poi però l’eccessiva violenza interna del corpo militare, la storia d’amore simulata attraverso un cellulare requisito e la disceso in una pseudo follia del protagonista abbattono il film verso dei luoghi comuni cinematografici. Soprattutto il finale uccide il climax di formazione del ragazzo, non lasciandoci modo di crescere con lui.  

Omelia Contadina – Alice Rohrwacher e JR, Italia  

A differenza della Nicchiarelli la Rohrwacher mi piace molto. Per questo mi sono incazzato quando mi ha somministrato Omelia Contadina. Un corto di 10 minuti rotti in cui dei contadini dell’altopiano Tosco-Umbro portano delle gigantografie di se stessi in mezzo a un campo. Lì le seppelliscono recitando un’omelia a ritmo di marcia funebre. Riprese stupende, dronate aggressivi su boschi nebbiosi. Però tutto il resto è un gigantesco no. Un unico discorso retorico per cui le multinazionali cattive distruggono il paesaggio agricolo rurale devastando ogni tradizione. Io che vengo dalla campagna più contadina d’Italia, ovvero Bergamo, e mi sento un discorso così infantile esposto in maniera infantile resto basito. Il fatto di avere usato i contadini come attori non salva il corto, per quanto i visi siano espressivi e bellissimi. Frase finale del corto, per fare intendere cosa sto dicendo:  
EST. GIORNO  
Contadino guarda dritto in camera  
CONTADINO  
Ci avete seppellito! Ma non sapevate che siamo semi!  

Narciso em férias - Renato Terra e Ricardo Calil, Brasile  

Devo dire che non sapevo nulla di Caetano Veloso. Oddio sentito nominare sì, ma credo che prima di oggi non avessi sentito mai un suo pezzo o visto il suo viso. Eppure, questo film è solo lui. Letteralmente. 90 minuti di Caetano Veloso su una sedia che parla della sua prigionia negli anni ’60. Punto. Nulla d’altro. Lui mi ha affascinato un uomo brillante, dalla parlantina e dal racconto facile, che riesce a creare bellissime immagini solo con la parola. Ma per il resto il film non esiste. È un monologo teatrale, e io l’ho apprezzato nella sua semplicità umanamente parlando.  

Padrenostro – Claudio Noce, Italia  

Eccoci al film che in tanti hanno odiato e io, come buon bastian contrari, ho davvero apprezzato. Anzi, per ora il miglior film che ho visto. La storia di un questore anti-terrorismo a cui il nuclei armati proletari sparano sotto casa. Il tutto è vissuto tramite gli occhi del figlio. La storia dopotutto però parla più semplicemente di amore e amicizia. La vicenda è palesemente sentitissima, il questore in questione era il padre del regista. E infatti è il rapporto col padre (un ottimo Favino che, anche come produttore, si ama molto) il nucleo meglio riuscito del film. Alcuni gesti semplici mi ricordano il mio rapporto con mio padre, dal suo semplice sbucciare la mela dopo pranzo ai suoi racconti sui luoghi della sua infanzia. L’ansia del ragazzo di perdere il padre lo mette in conflitto con il suo unico amico, che vacilla fra l’immaginario e il reale. A parte qualche sbavatura di ingenuità fra frasi da sceneggiato RAI e una pecca nella storia il film è fatto davvero bene, racconta una storia non banale, fresca e che risuona fra le corde di ogni figlio che ha amato suo padre. Ho pianto un po’ non lo nego. Però che bello poter piangere per queste cose.  


ENRICO G.



 I AM GRETA

Parlando di questo documentario, parlando di Greta Thunberg, sembra inevitabile schierarsi, quindi partirei dai dati oggettivi. Vengono raccolte tutte le convenzioni documentaristiche, scritte esplicative, voce fuori campo, filmati di repertorio. Eppure ci si trova con un prodotto agile, senza pesanti intermezzi con gli intervistati girati a tre quarti, vedibile da tutti, con la capacità di non lasciare indifferenti qualunque sia la posizione sull’argomento. Non a caso viene da Hulu, distributrice che ha già raccolto complimenti simili, e a cui sono legato più che altro per Becoming Bond, un bel documentario su George Lazenby, la pecora nera che fu una sola volta James Bond, lo 007 dimenticato.
Ma divago, anche se il Festival è di Cinema e non di ambientalismo non si può prescindere dal dibattito sui cambiamenti climatici. Il regista stesso ha realizzato questo perché ci si confrontasse, perché sicuramente l’argomento gli sta parecchio a cuore (l’ho visto alla proiezione, è un giovane pure lui, andrà per la trentina). Questa è la storia di Greta Thunberg, di come ha trascinato (e ha vissuto trascinare) milioni di persone nelle piazze, me compreso, per la giustizia climatica. Fortunatamente si evita l’agiografia, anche se a tratti sembra si voglia cedere alla tentazione di dipingere una martire, una santa che lotta per il bene del mondo. Il punto, e lo dice anche Greta nel documentario, non è lei, ma il bisogno di curare e rispettare la nostra Terra (e per estensione, anche noi stessi). Il movimento ambientalista, che ha anch’esso le sue frange estremiste e ignoranti, potrà sopravvivere solo con l’inclusività, con il rendere partecipe chiunque di questa battaglia per il nostro stesso benessere, andando oltre Greta stessa. Non si tratta di noi contro loro, l’ambiente non è una cosa di destra o di sinistra, dei vecchi o dei giovani, è tutto. Tutti ci sono dentro, tutti hanno la responsabilità e il potere di fare qualcosa, questa è la vera democrazia.
Ed è rimarchevole che il documentario abbia saputo urlare tutto questo senza sbatterlo in faccia, senza dimenticare a casa il Cinema. A tal proposito bellissimo quel viaggio in mezzo all’Oceano sulla Malizia, per andare al summit sul clima dell’ONU a New York. Tra le onde e il vento, implacabili, come Madre Natura a volte sa essere. Nessuno di noi, neanche Greta, può dimenticarlo.


 THE FURNACE

The Furnace, dei film visti finora, è quello con la premessa più squisitamente cinematografica. Esso ci informa, tramite un testo all’inizio, che sulla fine dell’800 in Australia impazzava la corsa all’oro. Il nascente potere inglese, per avere il controllo di quei traffici, trapiantava nello Stato-continente (più o meno forzatamente) dei carovanieri da altre sue colonie: Persia, India, Afghanistan, con i loro dromedari al seguito, in quella frontiera immensa da esplorare e garantire nei trasporti. Ora, ditemi se non è un humus straordinariamente fertile: la sfaccettatura sconosciuta di una storia nota a grandi linee, l’esplorazione di una terra e del suo popolo orgoglioso (gli aborigeni), l’anarchia legislativa di quell’immenso luogo attraversato solo da convitti, le loro guardie al servizio della Regina, gli indigeni, le piccole comunità etniche e religiose dell’oriente.
Peccato che la maggior parte dell’interesse si fermi qui: The Furnace è alquanto deludente, sia visivamente che narrativamente. Per far capire lo spreco di questo incredibile soggetto, basta citare una scena dove un carovaniere spiega ad un australiano bianco le differenze tra quelli che lui collettivamente chiama “ghan”: e lì ci sono i beluci, e lì gli afghani, e io sono un sikh e lui musulmano sunnita e l’altro sciita… La regola più citata del cinema è “show, don’t tell”. Qui vengono spiegate le cose, non fatte capire per vie traverse, con un minimo di arguzia e sottigliezza.
Anche sotto il profilo visivo, manca quasi totalmente il senso di epica e d’avventura, pur essendo cinema troppo “grande” per essere intimista. Prendiamo The Furnace. Una gran beffa quel bel titolo evocativo, quando in tutto il film non si percepirà neanche il minimo calore (o il freddo notturno) di cui l’interno australe è pervaso. Ma la Fornace è soprattutto il luogo dove Mal, ladro ferito, deve farsi accompagnare da un giovane carovaniere, per liberare dei lingotti d’oro dal marchio della Corona. Un film vagante dunque, anche se poi di fatto stanno sempre nella savana, con tutti gli ambienti che avrebbero potuto attraversare, tra deserti, foreste, paludi, rive sul mare.
Solo in chi li insegue brilla la scintilla del Cinema, e non parlo certo dei soldati (anche se pure tra loro c’è un caporale poco carismatico che si rivela il più equilibrato di tutti). No, dell’oscuro cavaliere che insegue Mal, che non vediamo mai, solo sfocato, di schiena, con quella pelle di una bianchezza innaturale in quel luogo cotto dal sole. Oppure preceduto dal suo “segugio”: un uomo cencioso, di etnia indefinita, con occhi cattivi e mira impeccabile. Mal lo chiama “il cane del Diavolo”. In una bella storia, questi due inseguitori sarebbero degni dell’olimpo di personaggi dei Fratelli Coen: un po’ mi hanno ricordato l’altrettanto fuori posto Chigur, da Non è un paese per vecchi, ma anche lo sceriffo, di Fratello dove sei.
Vedremo la faccia dell’oscuro cavaliere solo alla fine, indimenticabile (anche se sapere cosa succede all’australiano così a lungo inseguito rovina un po’ l’ambiguità del tutto). Mi porterò a casa il ricordo di una voce e di una fisicità particolari, assieme purtroppo alla maggiore delusione del Festival finora.


LA TROISIEME GUERRE

 Film francese, racconto compatto e duro di qualcosa che funziona sempre al cinema: che razza di tritacarne sia l’esercito per l’umanità che lo abita, spesso priva di un sostegno esterno (famiglia, amici, compagni), sopperito dalla squadra, l’uniformità, l’assegnazione di uno scopo. Inevitabili i paragoni con Full Metal Jacket, inserito però nella moderna lotta europea contro il terrorismo, dove non c’è un secondo atto in cui andare sul campo, ma un’alternanza dove la propria casa e il teatro di guerra sono potenzialmente la stessa cosa. È questa la Terza Guerra di un plotone di stanza a Parigi, in particolare per il novellino che si è appena arruolato. Situazioni potenzialmente esplosive, che non sì sa dove o come avverranno. Il terrorismo è questo, la paura di cosa possa succedere, e per un soldato, quasi l’ansia che accada, per potersi battere, per distruggere il nemico. E se non c’è, lo si crea, come accade nella tesa sequenza della manifestazione finale, dove esplode un suspense correttamente calibrata durante tutta la storia.
La Troisième Guerre non raggiungerà mai (probabilmente per scelta) la disperazione soppressa che aleggiava per quel capolavoro assoluto di Zero Dark Thirty, ma funziona nel suo esercizio di attesa, più che azione.



5 commenti:

  1. Primo: mi sono perso The Duke, nooooooooooooooo :(
    Secondo: meno male che hai parlato tu di Miss Marx. Mamma mia che fastidio quel film, che spocchia immensa, che imbarazzo quegli inserti rock, per dimostrare che siamo proletari ma anche fichi e giovani. Peccato che sia tutta un'immensa scusa per far vedere dei bei vestiti in un film (l'hai detto benissimo tu) puzzolente di vecchio, con la protagonista che se ne sta nella bambagia per due ore a dire che suo padre in fondo non ha fatto abbastanza per le donne e a spiegarci tramite la quarta parete, poveri noi spettatori ignoranti, cos'è veramente il marxismo.
    Tante cose, ma di certo non presuntuoso e pietista come questa pellicola.
    E taglio corto, ma se ci vedremo lo stroncherei volentieri per tanto tempo ancora.
    Ps invece a me omelia contadina non è dispiaciuto :)

    - Enrico

    RispondiElimina
  2. The Duke recuperalo ne vale la pena, veramente equilibrato. Posso solo concordare su Miss Marx, non c'è molto da aggiungere, però sembriamo gli unici a non averlo apprezzato. Vedremo ai riconoscimenti a fine festival. Vedo che invece siamo discordanti su Aloi ed Omelia contadina, dovremmo parlarne a lungo mi sa ahaha
    Vedremo cosa ci regalano i prossimi giorni ;)

    RispondiElimina
  3. La nostra parola d'ordine è famiglia !!! Ti aiutiamo a rimetterti in sesto con questo contributo finanziario, finanziato dal Ministero della Famiglia e dall'UNICEF e che ovviamente è (non rimborsabile) e si !!! L'obiettivo è aiutare le famiglie ad alzarsi per aiutare i nostri figli a continuare a sorridere !!
    Se hai una famiglia puoi ovviamente ricevere anche questa borsa di studio.
    Per coloro che ne hanno già beneficiato, ne approfittiamo solo una volta
    e-mail: jameldaouadi05@gmail.com
    Whatsapp: +33756805845

    RispondiElimina

due cose

1 puoi dire quello che vuoi, anche offendere

2 metti la spunta qui sotto su "inviami notifiche", almeno non stai a controllare ogni volta se ci sono state risposte

3 ciao