19.12.24

"Finalmente l'alba" / "Sette minuti dopo mezzanotte" - A luci accese (divagazioni illiminate) - 6 - di Nicola C.

Dopo quasi un anno (ma, al solito, colpa mia, i pezzi li avevo da mesi..) torna Nicola con il sesto appuntamento della sua rubrica "A luci accese", rubrica nella quale Nicola analizza più film, spesso per un filo conduttore comune (lo spiegherà lui nella presentazione).
Nicola è diventato da poco padre e capisco quanto "Sette minuti dopo mezzanotte" (film splendido) possa averlo colpito (l'altro non l'ho visto invece).
Comunque vi lascio a lui, prima alla presentazione e poi ai due film!

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Questa volta ci tengo a scrivere qualche riga d’introduzione, il che di solito non è nelle mie corde ma i film di cui parlerò meritano un’eccezione. Finalmente l’alba e Sette minuti dopo la mezzanotte sono per me entrambi meravigliosi, senza difetti. E visto che sono papà da qualche mese, questo è proprio il momento per due film così. Sono due film sulla “separazione” come quel momento che nell’immediato viviamo come perdita e che è tanto più prezioso perché ci rimarrà scolpito nell’anima e farà di noi quello che siamo. Per sempre.
E può anche essere la liberazione da quanto abbiamo tenuto sommerso troppo a lungo per paura o per vergogna; o che semplicemente non eravamo pronti a scoprire e in cui finalmente possiamo riconoscerci.
Separazione quindi che può diventare un più utile liberare per liberarci.
Perché la vita stessa è una separazione dal suo primo momento.
Ogni scelta è lasciar andare ciò che abbiamo escluso, ogni viaggio comincia da ciò che ci lasciamo alle spalle e – appunto – venire al mondo è la separazione più difficile e dolorosa eppure la più bella perché conduce a quel primo abbraccio altrimenti impossibile.
Ma da ogni esperienza “creativa” non ci si separa davvero mai più.
E’ il modo in cui lasciamo le nostre zone di conforto o le narrazioni che ci rassicurano che decide ciò che saremo. Perché poi il doverle lasciar andare non è che dipenda sempre da noi, anzi quasi mai. E a quel punto dobbiamo pur raccontarci qualcosa per sopportarlo. A volte le nostre bugie dicono di noi molto più delle nostre verità: l’inconfessabile che non sappiamo ancora mostrare agli altri ma innanzitutto a noi stessi. Allora se è vero che la realtà va scovata in ogni affabulazione è anche vero che queste ultime ne fanno parte indissolubilmente. E questi due splendidi film ci parlano proprio della verità quando irrompe nella sua crudezza a sciogliere l’enigma della sua maschera.
Siamo anche quella maschera e solo dopo averla riconosciuta possiamo separarcene.
Fatto questo siamo nuovamente pronti a tutto.

N° 12 FINALMENTE L’ALBA – LO SCANDALO DELLA PUREZZA


 

Finalmente l’alba è un film dai diversi piani di profondità e la sua ricchezza è nell’offrirli tutti con discrezione ed eleganza senza nulla togliere alla propria “generosità”. Alla fine un tale caleidoscopio di connessioni non può che portare ad altrettante interpretazioni personali. Per quanto mi riguarda ho visto soprattutto emergere una splendida epifania del femminile. Per arrivarci il film ci parla di ciò che rappresentò il Cinema nel dopoguerra: dall’incubo di un’umanità stretta intorno alle proprie macerie (e miserie) al sogno che quelle macerie vuole illuminate solo da una stella: la propria; perché la polvere sudicia della devastazione non ci riguardi più.
E il neorealismo tratteggiato in poche ma eloquenti scene gioca di contrasto
con la macchina “holliwoodiana” nell’epoca d’oro di Cinecittà.
Simmetria perfetta.
Saverio Costanzo conferma di conoscere benissimo gli strumenti che maneggia
ed è uno di quelli che non mi ha mai deluso.
La narrazione è subito intrisa della sottaciuta necessità di sopravvivere, la cui vitalità prende forma nelle spregiudicate ambizioni come negli espedienti che lastricano la salvezza: un matrimonio a buon partito o l’eldorado di quel Mondo oltre l’Oceano ancora una volta “Nuovo”. Quindi in una domenica come tante, in un pomeriggio restituito a un quotidiano nuovamente possibile del dopoguerra, nella sala d’un cinema il “Sacrificio” di una giovane che si immola per la vita di un bambino ebreo s’illumina in chiaroscuro, nelle ultime atrocità del nazismo in fuga dalla Liberazione; in controcampo il soldato americano uccide l'ufficiale tedesco pronto a giustiziare il bimbo. Nell’epilogo il soldato in campo lungo ascende la scalinata di Trinità dei Monti, evocando simbolicamente un domani finalmente migliore. Ma ci viene mostrato anche il giovane eroe che si congeda dall’orrore dopo l’ultimo gesto di coraggio, restituito alla vita e alle infinite possibilità di cui è sempre gravida la giovinezza. Soprattutto se tinta di stelle e strisce.
E questa metamorfosi, quella del giovane attore, va tenuta a mente.
Perché le trasformazioni degli altri spesso ci aiutano a capire le nostre.
Il merito è non cambiare quando il cambiamento obbedisce a regole altrui.


Mimosa (nome più simbolico non poteva esserci per un’epifania del femminile) al cinema con madre e sorella sarà comunque l’unica a emozionarsi e vivere sottopelle le vibrazioni di quell’orrore di guerra cogliendone la realtà: per lei reale è tutto quanto sia intensamente umano; a partire da quel momento ci è già chiara la sua alterità.
Dunque ritroveremo (non a caso, in un film dove tutto è simbolo e analogia) lo stesso interprete dell’eroe soldato come protagonista nel “faraonico” set di Cinecittà, dove Mimosa si trova quasi per caso a far da giovane comparsa in quell’angolo di firmamento d’oltreoceano. Lei che – a differenza di chiunque altro – quell’incanto vive con la purezza dello stupore e mai con la spregiudicatezza dell’ambizione.
“Comparsa speciale” le dicono e speciale lo è.
La terra promessa prende la forma di un Colossal, magnificando icone da rotocalco la cui emulazione significa dimenticare la miseria di ieri ed esorcizzare quella di domani.
Poi c’è il presente di lei: sogno a occhi aperti in una veglia che fagocita destini, speranze, vite. E innocenza. Ne sarà rapita, sedotta e tradita in un viaggio surreale, attraversando con candida grazia mondi assurdi come il linguaggio dei sogni, dove però reale è ogni ferita e ogni caduta su quella polvere di stelle sotto la cui coltre il suo è l’unico cuore a battere. Il silenzio della poesia è tempo sospeso, inganno involontario eppure l’unica emozione colta, offerta in dono a chi mente persino nel sogno. Finalmente l’alba è un film in cui scandalo è la purezza, rompendo da sola la quarta parete quale ancestrale confine tra la coscienza e le pulsioni dell’anima. Protagonisti disperatamente intenti a negare le proprie debolezze me che a quelle si immolano in un incosciente sacrificio, dove la cruda realtà non può che infrangere la finzione dorata.
Ed ecco che inseguendo la vita la si può perdere su una spiaggia ai margini della dolce vita o in un matrimonio fortunato solo nello sguardo altrui.


Fin quando il volto della dea perde, con gli strati della maschera,
la sua insolente divinità
svelando il segreto di una fragilità meravigliosamente umana.

Trascorsa la notte, il viaggio di Mimosa scandisce
“in direzione ostinata e contraria”
la stessa scalinata da cui cominciò
quella domenica pomeriggio
restituendone il simbolo alla realtà.
Rivoluzione che riconduce al principio, come ogni rivoluzione.
E il principio già non è più il pudore di umile ragazza del popolo
ma l’inviolabile natura del femminile.
Senza deleghe. Al di là delle parole. Delle rivendicazioni.
Fiera al suo fianco.


N° 13 SETTE MINUTI DOPO LA MEZZANOTTE – L’AMORE CHE MOSTRO!


E’ stato un interessante scambio di battute con Giuseppe (nei commenti alla sua recensione) a farmi capire fino in fondo quanto sia davvero speciale questo film e a convincermi che valesse la pena parlarne qui più compiutamente.
Questo è un film che ci fa mettere a fuoco la differenza tra ciò che sentiamo e ciò che mostriamo, tra ciò che proviamo davvero e ciò che pensiamo di dover provare. Ed è indubitabile che siano piani profondamente diversi dell’esistenza la cui opposizione qui è dolorosa, rivelando cose di noi che normalmente (ci) teniamo nascoste.
E Sbagliamo.
Perché questa contraddizione è dovuta al fatto che spesso il preteso paradosso di insegnare le emozioni ne esige solo la manipolazione, fino magari a negarle. Ma sarebbe meglio piuttosto farle nostre, che solo scoprendole possiamo crescere.
Di ciò che sentiamo non potremmo mai sentirci in colpa, semplicemente perché colpa non è. Banalmente perché la sfera emotiva è per sua natura esente da qualunque giudizio morale e poco importa se ci ostiniamo a sottoporla alla sua lente.
Nel film di tutto questo ci parla un mondo adulto che sa di non poter punire ciò che è privo di volontà. Di questo ci parlano i racconti del “mostro”: lezioni per una catarsi laica dal senso di colpa che vogliono liberarci dalla cecità degli imperativi morali cui obbedisce la coscienza tarpata dal giudizio. Racconti che alludono al linguaggio del mito (qui edulcorato alla forma infantile della fiaba) e quindi alle “radici” dell’esperienza umana che solo in se stessa può cercare le risposte. Ma per quelle occorre sempre uno sguardo nuovo e Connor – anche se ancora deve esserne consapevole – già lo possiede grazie proprio a quella madre, nel momento a partire dal quale niente più sarà come prima.


La radice di “Monstrum” (dal latino, prodigio) è etimologicamente in monere (come ammonire) da cui “monstrare” (mostrare una volontà trascendente che è infine monito e insegnamento):indicare la via corretta prendendo l’aspetto di un essere sovrannaturale e quindi divino,
ma della divinità declinata nella cultura classica
che rappresenta l’umano anche e soprattutto nella sua oscenità.
L’albero che estrae le sue radici dal terreno, che diventano gambe per muovere verso il bambino, è profondamente simbolico. La parte ”radicata”, sepolta e perciò invisibile agli altri (ma che “alimenta” ciò che gli altri vedono e che per loro siamo) viene dissotterrata, emerge allo scoperto e diventa finalmente cammino verso di sé a “rivelare” i segreti di quella profondità
in cui è custodita l’origine di ogni salvezza.
Il mostro è un prodotto della fantasia del bambino:
è Connor che impara a guardarsi e a “venirsi incontro”.
Così con quelle storie ora potrà ritrovarsi raccontandosi la necessità degli esseri umani di mentire a se stessi (il principe che vuol credere che l’amata sia morta per mano della strega negando a se stesso il proprio gesto, così come il popolo che vuol crederlo innocente per ritrovare il suo amato sovrano); ma anche che in una sembianza orribile - alter ego della propria - non è detto si celi una colpa (la strega infatti è innocente) con chiaro riferimento al proprio desiderio vissuto come colpa ma che colpa non è.
Per poi comprendere (con la storia dell’uomo invisibile) che peggio di risultare invisibili allo sguardo altrui è esserlo a sé stessi, accecati dallo stesso odio che ci viene rivolto; e che poi, una volta proiettati nella realtà, gli altri quell’odio sapranno assolvere quando ne conoscono il dolore, che si può essere al mondo per cose diverse dal giudicare e dal punire (la nonna non lo rimprovera nonostante abbia devastato le sue cose).
E solo recuperando lo sguardo su di sé Connor potrà affrontare infine l’incubo della Creatura (in quell’ultima sembianza, la malattia) che l’obbliga ad afferrare sua madre sospesa nel vuoto in uno sforzo insostenibile, solo per capire che lasciar andare ciò che è impossibile trattenere è un gesto d’amore necessario anche se può apparire mostruoso.
Adesso lo sa.


Il cerchio quindi è chiuso: sta a noi assolvere l’innocenza quando gli altari si trasformano in patiboli. La morale applicata ai sentimenti è una rassicurante menzogna - con cui assecondiamo aspettative che ci schiacciano - prima illusoria e che poi al dunque può essere profondamente ingiusta e devastante. Il finale è straordinario e commuovente perché rivela che a volte la “salvezza” è proprio in ciò che rifiutiamo o che il mondo ci impone di rifiutare;
che qualunque edificazione morale calata dall’alto ci allontana dal nostro diritto di esserci,
che è molto più di esistere soltanto.
Così come amiamo non perché sia giusto ma solamente perché ne abbiamo bisogno,
come per ogni nutrimento (la voglia di dare e l’istinto di avere, cantava il buon De André).Amare ed essere amati fino all’ultimo istante è il massimo che può esser concesso
e infine lasciar andare sarà l’unico gesto in nostro potere.
Poi vivremo l’illusione del ricordo, ma solo così avremo imparato ad amare davvero.
E potremo farlo ancora.



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