11.6.16

Il Controfestival - E.L.E.N.A

Se mi passate il termine, i film che ho scelto rappresentano una specie di Concept Album.Il tema cardine e l’amore nelle sue varie e diverse declinazioni. 
Il lato A parla di amore. 
Anche il lato B parla di amore a dir la verità.
O di non amore. 
La particolarità di questi ultimi tre film è la scansione temporale, indicata graficamente allo spettatore, all’interno degli stessi. Giorni nel primo caso, mesi nel secondo e terzo. 
Per quanto riguarda la “bonus track” è tutto invece in tempo reale, un unico piano sequenza.

Titolo: CINEMA DEL SENTIMENTO

SIZE 1
LOVE (la ricerca)
·        Shortbus di John Cameron Mitchell - 2006
·        XXY di Lucia Puenzo - 2007
·        Desiderio/Sehnsucht di Valeska Grisebach - 2007

SIZE 2
LOVE (padri e figli)
·        Il ritorno di Andrey Zvyagintsev  - 2003
·        Linha de passe di Walter Salles e Daniela Thomas - 2008
·        Father and Son di Hirokazu Kore-Eda - 2013

BONUS TRACK
LOVE (tutto in una notte)
·        Victoria di Sebastian Schipper  - 2015

§

SIZE 1

Shortbus di John Cameron Mitchell – 2006


New York è una distesa di parallelepipedi vagamente fallici che sembrano ergersi sulla superficie terrestre come una moltitudine di mattoncini Lego di varie altezze. Specchio riflesso di quei formicai del sottosuolo di dickiana memoria in cui gli uomini sono tenuti prigionieri e all’oscuro con l’inganno. Metafora forse scontata, ma dagli sviluppi tutt’altro che banali di solitudini recluse sedimentate e riluttanti.
Un viaggio a diverse fermate. Come uno scuolabus di “soggetti non conformi”, lo Shortbus è un locale che trasporta chiunque voglia salire e vedere dove si va. Ogni tappa ripercorre momenti della storia di un personaggio. Il sesso è l’itinerario attraverso il quale ognuno ricerca non solo se stesso, ma il rapporto con gli altri, un rapporto interrotto, complicato, afasico. Acrobazie erotiche tracciano orbite esistenziali che si dipanano come meccaniche celesti.
Dalla coppia omosessuale al feticista, dal lui+lei in cui nonostante prestazioni funamboliche in cui lei è il nucleo del proprio paradosso esistenziale: sessuoterapeuta e incapace di provare un orgasmo, dal voyeur al vecchio solitario sindaco gay. Ogni tappa è una tappa di avvicinamento ad una ricomposizione del sé.
A voler guardare il dito (i molteplici e variegati, multipli o solitari amplessi) ci si dimentica della luna, a volte oscura quanto si vuole, una mostruosa quanto dolorosa e necessaria ricerca di un’affettività di contatto che vada oltre la pelle o che, attraverso essa, oltrepassi la superficie e scenda in profondità, scandagliando i turbamenti emotivi di ciascuno. In una parola di amore, quell’amore così mancante in un mondo a valenza monadica in cui si è soli prima ancora di riconoscersi tali. Ognuno agisce in funzione di se stesso incapace di relazionarsi veramente all’altro da sé. E, se da un lato, l’orgasmo, anelito vitale per eccellenza si declina in: assenza di; individualità (la ripresa filmica autoprodotta è parossismo masturbatorio); aggiunta puramente “decorativa” - funzione assolta dall’arte figurativa come sosteneva Francis Bacon - tramite lo schizzo che va a infrangersi sulla tela e a mescolarsi alla furia pittorica cristallizzata dall’action painting pollockiano alle spalle di uno dei protagonisti, dall’altro va a chiudere magicamente un cerchio.
Quando il viaggio volge al termine, tutti sono saliti sullo Shortbus e ne discenderanno, dopo un black out elettrico che illumina l’interiorità di ciascuno, cambiati, riconosciuti, rivelati a se stessi, come, talvolta, nella vita accade.


Il consiglio: astenersi puritani dal cuore duro.

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XXY di Lucia Puenzo – 2007


Il sommerso è ciò che non si vede. Che sta sotto la superficie. Non vedere non significa non esistere.
Natura è un concetto esteso che di per se non avrebbe confine.
Natura: quella splendida e dolente delle spiagge uruguayane, intrise di tonalità indacogrigioazzurropolvere, di salsedine che stempera i colori accesi e li riconduce ad una quiete che fa da sfondo all’inquietudine saliente come una marea.
Natura: quella che studia il padre di Alex, biologo marino che si è rifugiato in questo eden nascosto per celare lui stesso qualcosa.
Natura: quella ermafrodita di Alex che è divisa o meglio sdoppiata e che è giunta sul liminare di una scelta, di un sapere da che parte stare, che cosa volere. E se è difficile per un normale adolescente, figurarsi per qualcuno che normale non è e che tale lo si considera, nonostante tutto, dai genitori agli amici agli abitanti del villaggio. Il confine è un bisturi per recidere il passato.
Feroce, a tratti disperato è il percorso di Alex nella terra di nessuno, brutale nel suo immedesimarsi ragazza che seduce un ragazzo con gli attributi da uomo. La profondità di sguardo di Alex è un oceano di domande in cerca di risposta. Le gambe da ragazzo, il passo nervoso le fughe gli appostamenti ad Álvaro il coetaneo, la “specie” animale da analizzare come un entomologo dell’anima, con la cura e la pazienza dei disegni.
Delicato, a tratti poetico è al tempo stesso quello stesso percorso che è una zona d’ombra da spiare attraverso una feritoia, un sostare sotto un cielo che scarica pioggia a non finire, una storia disegnata per dire ciò che le parole non sanno dire.
XXY è un dramma che si risolve tra una notte lungo l’autostrada, in una ricerca e nell’abbraccio e nello sguardo di un uomo, un padre, che ha compreso che la vera scelta è quella di non scegliere. Non ancora e non per sempre. Vale il qui e ora. Vale quel mare immenso che si distende a perdita d’occhio come lo spazio delle possibilità.



Il consiglio: vedere della stessa regista “El niño pez”.


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Desiderio/Sehnsucht di Valeska Grisebach - 2007


La verità, vi prego, sull’amore. Le sue declinazioni, il suo mutare, l’origine, il mistero, i suoi confini, invalicabili o meno che necessitano di barriere o meno, di cancelli del cuore per non scappare via.
Tutto è circolare, come si apre, così si chiude. Uno schianto, uno schioppo. Ma, talvolta, i cerchi non si chiudono del tutto. Rimangono varchi aperti ad altre possibilità. L’amore è triste ma è anche follemente romantico. Non melenso. Un concetto perpetrato come un girotondo generazionale, un passaggio di testimone dagli adulti ai bambini, in una reiterazione perenne come una rivoluzione planetaria che in un dato lasso di tempo giunge sempre allo stesso punto di partenza. Un sistema solare di pianeti orbitanti attorno alle proprie presunte certezze. Amori che ruotano attorno al proprio sole e al proprio asse e ad un certo punto si concedono una traiettoria eccentrica per un desiderio ancora non desiderato, un desiderio a venire che scava un solco nel quale si entra e dal quale è difficile uscirne.
Il romanticismo tedesco associa al desiderio il concetto di dolore. Inevitabile. Ineluttabile.
La vita piana, casalinga, le piccole cose di pessimo gusto, la famiglia, il lavoro, i colleghi, la solitudine, le tovaglie di buona fattura, il cibo onesto, l’amore fatto e quello pensato. Le distanze che creano altre distanze.  Geografie illusorie che paiono aprirsi su altri mondi, altri orizzonti.
Lo sguardo altrove. Non si sa dove, ma oltre. La vita altrove. Non si sa dove, ma oltre.
Il desiderio del desiderio si sublima in un ballo solitario in cui la rotazione è attorno e dentro sé. Il trasporto, l’abbandono totale ad un momento di pienezza estrema e dolente. Non c’è contrasto tra l’impaccio del corpo, dei movimenti timidi e la voce di Robbie Williams su “Feel”. Ci sono gli occhi chiusi destinazione paradiso, un mondo altro. Il risveglio. Accanto a. L’amore binario e una corsa senza biglietto che si sdoppia e paga pegno.

Il loro amore moriva
come quello di tutti
come una cosa normale e ricorrente
perché morire e far morire
è un’antica usanza
che suole aver la gente.
(Giorgio Gaber)


Il consiglio: riascoltare “Feel” anche se non vi piace Robbie e ballare da soli.


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SIZE 2

Il ritorno di Andrey Zvyagintsev  - 2003


L’acqua è la coprotagonista del film. Due fratelli, un padre tornato misteriosamente a casa dopo dodici anni di assenza. E l’acqua. Tantissima acqua. Dai fondali dove risiedono sedimenti, incrostazioni che si sono accumulate nel tempo attorno ad un’ imbarcazione come nella memoria dei bambini, relitti essi stessi di un abbandono che è stato un affondo, a quella dove vincere la paura e tuffarsi, a quella che circonda l’isola, agli scrosci violenti di pioggia, alle gocce dietro al finestrino di un’automobile.
L’infanzia di Ivan è soggiogata da quell’abbandono. Il ritorno è un viaggio nell’ostilità repressa verso quei sentimenti che si sentono traditi.  Andrey, Il fratello maggiore subisce il fascino di una figura mai posseduta.
Il trampolino, l’altezza, il salto nel vuoto, l’appellativo ingiurioso. Anche da piccoli è brutto sapersi codardi. La corsa litigiosa ha un traguardo inaspettato. Nella casa vige la regola del silenzio. Un uomo è arrivato. Il padre. Il primo quadro pittorico è del Mantegna e chi l’ha visto non può dimenticare i brividi che quella figura distesa procura lungo la schiena per schiantarsi nel cervello. Poi verranno Hopper e Monet.
C’è un tempo atteso - il tuffo, la fame, l’abbandono sul cavalcavia, la pesca - fermo nelle scelte delle azioni e dei movimenti che compongono la storia. La storia che è un viaggio, nel tempo scandito dai giorni e nello spazio verso un’isola che raccorda mistero e curiosità e che scatena come i temporali, elettricità e lampi di sentimenti ambivalenti di odio amore indifferenza.
L’equilibrio tra parole e silenzi è retto dagli sguardi. Nessuno lo volge altrove. Ognuno è presente pur nel suo essere contro, in quel momento che rappresenta un unicum nel loro incedere. Padre è una parola difficilissima da dire se non si sa quale significato attribuirgli. Padre è altresì una parola facilissima da dire quando si riconosce impulsivamente cosa è andato perduto. L’acqua immersiva chiamerà a sé un altro naufrago, maldestramente sconfitto da se stesso e dal caso.
La galleria d’arte figurativa si conclude con la fotografia. Gli scatti a chiudere sono un nodo alla gola difficile da sciogliere. La fotografia rimanda ad un passato prossimo che già è scomparso. Così nitido e sorridente sulla pellicola e così labile nel vivere. Il tempo interiore prevale su quello cronologico e il futuro è già nostalgia. Il tempo è il quinto elemento di questo film essenziale, lirico e, con una parola abusata, struggente.


Il consiglio: vederlo. E rivederlo.
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Linha de passe di Walter Salles e Daniela Thomas – 2008


Mani, mani e ancora mani. Stadio-ventre-preghiera-applausi. Un raccordo tattile lega come un filo sottile le storie di questo film. Ma per giocare a calcio ci vogliono piedi buoni.
Due fedi due divinità due speranze. Due speranze di riscatto. La religione e il pallone. Stadio e Chiesa, quale che sia il luogo in cui si prega. Due templi in cui sacro e profano riuniscono il credo verso un qualcosa di supremo. Che sia un tackle vincente o un miracolo, poco cambia.
Il Brasile lontano dai sambodromi e dalla saudade è un Brasile di lotta quotidiana, di dignità nonostante.
Un Brasile di figli senza padri, di fratellastri orfani di padri fuggiti via dalle loro responsabilità. Una ricerca dispiegata nei modi più diversi. Una ricerca delle proprie radici, del proprio essere diverso dagli altri, per una tonalità, per i capelli così ricci. E di madri che sono la parte per il tutto. Sineddoche familistica per necessità, loro malgrado, non certo per scelta o vocazione.
L’acquaio intasato e sporco è un normale disagio domestico ma è anche l’impossibilità di far defluire i groppi quotidiani, le difficoltà, le pene e le preoccupazioni tutte che paiono moltiplicarsi anziché diminuire, nonostante tutti gli sforzi di qualcuno e quelli di nessuno. Nonostante il tempo che passa. Inesorabile come i diciotto anni festeggiati da tutti tranne da chi quegli anni non avrebbe ancora voluto compierli, segno inequivocabile di quell’essere già troppo grande per non essere diventato una promessa se non un campione.
E come i mesi che scivolano via e segnano un avvenire uguale a quello di tanti altri e non unico e fantastico come nei sogni. La vita scandita dal niente sembra andare più lenta, stentare come su una salita impervia e a nulla vale scalare le marce, togliendosi gli anni di dosso. Intanto, lungo le strade c’è sempre un pullman pronto ad accogliere la quotidiana avventura di chi, ancora, un qualcuno da chiamare padre lo cerca davvero.
Nel Brasile che tutti calcisticamente pensiamo individualista e votato al genio solipsista, il richiamo è quello di giocare per la squadra, di non far l’amore con il pallone, perché è la squadra che vince. E alla fine la squadra di famiglia nel breve di uno scatto veloce, vince. L’acqua torna a mulinare limpida nello scarico del lavandino, rompendo la stagnazione permanente. Altre acque si romperanno, sotto a quel ventre accarezzato tra l’amore materno e la rassegnazione. Un altro padre inesistente percorrerà le strade di San Paolo, il Corinthians non andrà forse in serie B e la favola per un po’ avrà il suo lieto fine.  Intanto, un nuovo autista sta guidando la sua vita fuori dal guado.


Il consiglio: andare almeno una volta nella vita allo stadio. Possibilmente da piccoli.


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Father and Son di Hirokazu Kore-Eda – 2013


La compostezza orientale non altera la percezione di un dolore poco esposto, trattenuto, conciliato con il buon senso, la rabbia, il risarcimento. L’affetto. Quello trascurato del padre di Keita e quello giocoso del padre di Ryusei. Senonché. E’ da uno scambio di neonati che si avvia il dramma familiare che attraversa il conflitto tra il Giappone moderno e quello tradizionale tra i legami di sangue e quelli di contiguità. E’ nelle piccole storie, nelle umane avventure che il cinema di Kore-Eda trova respiro. Un respiro profondissimo fatto di grandi prese di fiato, di piccoli impercettibili sospiri e di amare deglutizioni.  Poli opposti di un’idea di famiglia, i due nuclei, l’uno benestante, l’altro proletario, tracciano una linea di demarcazione che acuisce i contrasti, guidati dai rispettivi padri. Duro freddo anaffettivo l’uno, caciarone affettuoso partecipe l’altro. La miscela è pericolosamente implosiva quanto il decoro richiede. La forza dirompente di un dissenso lavora sotto traccia e trova qualche sbocco in momentanee situazione cui fa seguito lo sforzo di ricomporre il tutto. La forza del legame di sangue, è una forza ancestrale, connaturata ad una idea se non propriamente di casta, quanto meno di appartenenza ad un medesimo rango sociale. Il Giappone ha ancora oggi difficoltà a fare i conti con il proprio passato. L’educazione è un modo di perpetrare usanze e tradizioni cortocircuitando il nucleo socio-famigliare e chiudendolo dal di dentro per non ammettere intromissioni. L’altro, il sangue diverso, sono pericoli, a nulla conta che un figlio sia stato considerato tale e amato per sei anni della sua vita. Lo scambio diventa come quello di un gatto. La simmetria che dall’inizio, schermo a nero ci appare in tutta la sua incongruenza perché viene “disturbata” da un’evidente bugia, è la struttura portante del film. Le parti, mese dopo mese, si avvicinano e si allontanano da un ipotetico punto di fuga in un piano prospettico di equilibrio fra le parti che nonostante le diversità palesi, si risolvono, alla fine, alle stesse scelte. Il punto di rottura arriverà dai bambini, ovviamente. Ovviamente non consultati, non interpellati, a cui la decisione – lo scambio di genitori e conseguentemente di casa – è avvenuta senza tenere in alcun conto i loro sentimenti. Sentimenti che in forza di un rispetto o di un’educazione austera sono deprivati di calore e affettuosità e sono relegati ad una sofferenza degli occhi che tocca un nervo che si rivela scoperto e dolente come un’improvvisa glaciazione.

Il consiglio: cercare tutta la filmografia di Kore-Eda

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BONUS TRACK

Victoria di  Sebastian Schipper  - 2015


Victoria è un time lapse di battiti del cuore e Berlino è la città buco nero in cui collassano spazio, tempo, storie, passi, rumori che sono respiri incrociati come destini dalle viscere su un tetto e poi giù di nuovo in uno squarcio di notte spasmodica che è come un’ora di punta dove le vite di quattro ragazzi tedeschi e una ragazza spagnola collidono modificandosi per sempre.
Ciò che percepiamo all’inizio è diverso da ciò che sarà la fine. Al centro sempre lei, Victoria, sola e solitaria, randagia nel suo incedere techno rarefatto in cui scopriamo, da subito, l’ossessione per i capelli che si sciolgono e si riannodano senza soluzione di continuità.
Noi siamo con lei every breath she takes, every move she makes e l’inglese è ciò che congiunge scarnificando l’essenzialità, lingua matrigna per tutti che elude giri di parole per arrivare al nocciolo di quello che si vuole dire. Il sotteso è extralinguistico. Siamo con lei dal cuore della notte al mattino, lungo tutto il piano sequenza che ci porta da un posto all’altro da una storia che prende una piega e poi un’altra e un’altra ancora e la sfida è seguire ogni sguardo ogni tenerezza ogni titubanza ogni lampo di paura ogni attesa ogni pensiero che passa per la mente che vorrebbe dirle cambia strada! e poi no perché chi non ha seguito un giorno qualcuno o qualcosa che poi ci ha messo in pericolo e noi lo sapevamo e anche Victoria lo sa ma prosegue e va avanti non se la sente di abbandonare chi ha bisogno di lei quanto lei ha bisogno di lui. Victoria è rosa è noir è un caleidoscopio di cristalli sparsi che per un attimo, si sono ricomposti in un diamante.
Cleo dalle 5 alle 7 aspettava un verdetto. Victoria lo insegue, lo cerca, lo sfida, lo perde, lo riacquista in un’alba chiara di densa malinconia.


Il consiglio: guardare almeno la sequenza della sonata del Mephisto Waltz

8 commenti:

  1. Adorabile l'impostazione del tuo articolo, e al solito calda la tua scrittura.
    Approvo in particolare Shortbus e Father and Son, mentre XXY non mi aveva del tutto convinto.
    Gli altri spero di recuperarli e venirti poi a leggere (leggo solo di film che ho visto).

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    1. che poi mi venivano in mente anche altri film ma il tempo è quello che è...e sono pure stata l'ultima a consegnare... come a scuola con i temi!
      XXY mi colpì subito per la delicatezza e l'assenza di morbosità.
      Grazie! :)

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  2. Mamma mia quante belle pellicole qui...Non so da dove cominciare. Ho visto solo XXY (pure a me non ha convinto). Desiderio mi intriga assai. Vado? Mi unisco a Chiara Scura per i comlimenti per il mood.

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    1. Grazie!
      Effettivamente - per restare in ambito musicale - dovremmo fare una sorta di compilation da scaricare per tutti!
      Su XXY, come ho scritto a Chiara, ho apprezzato la modalità di trattare un tema insidioso e irto "di pericoli" tra il rappresentare troppo o troppo poco.

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  3. Di questa rassegna di pellicole conosco solo Il Ritorno e Father And Son, due bellissimi esempio di grande cinema. Cercherò nei limiti del possibile di recuperarne altre, perchè davvero certi titoli mi solleticano e stuzzicano la mia fantasia cinefila :)

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    1. Leviathan di Zvyangistev è un altro grandissimo film.
      E kore-eda è un grande ritrattista di rapporti umani familiari e non.

      In queste occasioni pure a chi di film ne vede parecchi prevale il senso della mancanza! Quasi frustrante!

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  4. visti solo tre, cercherò di recuperare

    concordo su "El niño pez”, strano e bello, inatteso

    su "cercare tutta la filmografia di Kore-Eda" sono in perfetto accordo, mi manca solo "Father and son", mi sembra, mi impegnerò :)

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    1. Su kore-eda dunque non aggiungo niente!
      Invece spiace che alcuni film trovino così poco spazio distributivo. El nino Pez vinse il Torino glbt film festival ma rimase lì confinato.

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due cose

1 puoi dire quello che vuoi, anche offendere

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3 ciao