5.7.16

Recensione: Due occhi diabolici - D(i)ario Argento, la mia storia d'amore con il Re del Giallo - 12 - di Miriam



Quella di Miriam è ormai una rubrica "storica", ben 12 appuntamenti. Ma se si inizia una cosa bisogna finirla, specie se si è presi la briga di voler recensire l'opera omnia di un autore. Ed è così che Miriam si trova a dover fare delle specie di salti mortali per poter parlare nella maniera migliore possibile anche dell'ultimo, quasi sempre disastroso, Argento.
In questo Due occhi diabolici del 1990 il Nostro si trovò addirittura a "collaborare" con un altro grandissimo, Romero (anche lui, ahimè, autore di più di uno scivolone nella seconda parte della carriera). In Due occhi diabolici si traspone nientepopodimeno che Edgar Allan Poe. Gli episodi dovevano essere 4, gli altri due affidati a due altri mostri del genere, Craven e Carpenter. Credo che rifiutarono. Visti i risultati fecero bene.
La solita divertentissima e tremendamente "esperta" Miriam.

Qui le altre 11 puntate, dai primi capolavori agli anni 90

Ancora ci spero, che D, magari venendo invitato a una di quelle mega proiezioni dei suoi vecchi film che fanno in Giappone (anche negli stadi) abbia un insight e si alzi gridando: Giallo! E riprenda con i capolavori. Di certo questo non potrebbe mai accadere se proiettassero Due occhi diabolici.
Se Romero e Argento sono garanzia di figaggine per quanto riguarda i primi film, sono, allo stesso tempo, due tra i migliori registi horror che sono andati incontro a un declino qualitativo di proporzioni incredibili. 

Due occhi diabolici, ma anche due sceneggiature che fanno acqua da tutte le parti. Su quello di Romero non mi soffermerò, anche perché non mi compete, vi basti sapere che sembra una puntata della Signora in giallo di quelle più noiose (tipo quelle in cui lei non è starring ma racconta in voice over, che porcheria), con un’unica nota coccolosa: il morto. Il morto è divertente. Ma finisce tutto in un secondo. 
Dario ha deciso, in preda a un momento di delirio di onnipotenza, immagino, di mettere in scena Il gatto nero, uno dei racconti più trasposti e abusati e rovinati di Poe (grazie al cielo esiste il signor Stuart Gordon che, a oggi, mi ha dato la versione horror migliore - è uno dei 2 segmenti di Masters of horror che ha girato, entrambi molto carini e divertenti). 
Bene, veniamo a noi. Vedere un mediometraggio di Dario Argento ispirato a uno dei più noti e affascinanti racconti di Poe, del 1990 (l’unico obbrobrio è Trauma, altrimenti aveva all’attivo 8 film di cui uno passabile e 7 spacconissimi) con Harvey Keitel mi metteva addosso del rinnovato entusiasmo, non lo nego. Beware of entusiasmo, perché ti porta a grandi delusioni, non importa quanto tu sappia che Dario è proprio in quegli anni ha iniziato a svaporare completamente le trame in intricati grovigli di nulla e buchi di sceneggiatura che se ci cadi dentro chissà dove ti portano  e tutte le premesse di cui sopra, la scintilla c’è sempre, io gli voglio bene, sapete. 


Comunque: in teoria, dopo il Romero deludentissimo che ho guardato con gli occhi sgranati, tutti asciutti causa la divaricazione estrema da stupore delle mie palpebre, pensavo che il Dario non potesse essere peggio. E, in un certo senso, è così. Ma solo in un certo senso; mi spiego: sebbene non tutta l’ora di film paia una puntata speciale del detective in corsia (ora, chiariamo: La signora in giallo e Un detective in corsia sono due pilastri della comunità quando si tratta di intrattenimento prandiale e morte, li adoro e stanno nel recinto famiglia allargata televisiva assieme a detective Monk, ma non è cinema), ci sono talmente tanti momenti in cui si ride e non si dovrebbe da far sforare il tetto massimo di mancanza di dignità. Ed è un vero peccato, perché i primi 5-10 minuti mi facevano presagire una discreta bomba. Soprattutto la soggettiva con la camera bassa, l’apertura gore e inquietante, con il fotografo che aziona la ghigliottina a pendolo per fare delle foto più macabre e i poliziotti che gli danno addosso. Ecco, io mi aspettavo una discesa nell’abisso da parte di questo personaggio, uno che ammazza la moglie e la mura assieme al gatto e tutto quello che sono esigenze narrative, ma un pazzo, uno che inizia ad avere delle turbe gravi: avrei preferito scene disturbanti con lui che si rotola sul pavimento e urla o qualunque altra cosa facciano le persone in presa a deliri di mattanza e invece mi tocca una rappresentazione piatta e signoraingiallesca, con un HK totalmente sottosfruttato che quando ha dei mini picchi di follia urla come uno a cui hanno rubato i giocattoli. Ma soprattutto uno che è abbastanza sano da inventare degli stratagemmi per non essere incolpato. Degli stratagemmi spassosissimi, vi cito il migliore. HK uccide la moglie, ma non vuole essere incolpato del crimine, quindi decide di fare in modo che non ci sia nessun crimine agli occhi della comunità. Dopo aver murato la fidanzata, sale in macchina con un fantoccio su cui attacca una foto ovale del volto della donna, poi con un complicato sistema di carrucole lega il braccio del fantoccio e sfreccia in macchina schizzando con una pozzanghera i vicini anziani e poi tira la cordicella legata al braccio cosicché pare che la coniuge-fantoccio saluti. Che ansia. Mi sento male per lui solo a ripensarci. Ecco, questa è la caratura delle idiozie messe in atto dall’assassino che culmina in un’impiccagione accidentale con tanto di poliziotto in sovrappeso morto ammanettato ad un HK che così conclude il pagamento dell’ultima rata del mutuo. 


Adesso: le soggettive dal punto di vista del gatto sono fenomenali, l’incipit è fenomenale, Dario è fenomenale. Io tutto questo non lo nego e non voglio e non posso essere velenosa sugli errori cinematografici e teorici e narrativi del Maestro, perché resta sempre e comunque il regista che ha sparato la maggior quantità di horror strepitosi in assoluto (beh, Carpenter è un Carpenter e comunque The Warrd è, santo cielo, la prova a sostegno di quello che sto per affermare), ma l’horror è un genere nobilissimo ed estremamente difficile e delicato, oserei dire. Sì, perché l’horror si erge a metafora di quanto non sappiamo come esprimere, sia perché rappresenta un concetto delicato e spinoso, sia perché a volte ci sono costrutti di vita che le parole non sanno esprimere e il realismo non sa esprimere e allora cosa c’è di meglio di un horror per raccontare qualcosa che allo stesso tempo ti terrorizza ma desideri (vedi Hellions), dello smarrimento contemporaneo per cui via social il volto e l’aspetto di chi ti osserva è ignoto (vedi It follows), per cui i neri sono come tutti gli altri e tu guarda anche eroi (Night of the living dead, giusto per citare Romero), per cui ami o detesti qualcuno che ha fatto qualcosa di orribile (Profondo Rosso?) e così via. L’ossimoro è il territorio in cui l’horror può meglio farsi valere e dimostrare di sapere raccontare l’animo umano con quanta più creatività e anticonvenzionalità si possa spesso fare. é per questo che mi arrabbio e mi dispiaccio: dai Dario, torna in te. 

Nessun commento:

Posta un commento

due cose

1 puoi dire quello che vuoi, anche offendere

2 metti la spunta qui sotto su "inviami notifiche", almeno non stai a controllare ogni volta se ci sono state risposte

3 ciao