22.1.24

Recensione: "Il Ragazzo e l'Airone" - "AnimE e Core, la grande passione per l'animazione giapponese - 18 - di Enrico G.

Altra rubrica esterna che torna sì dopo tantissimo tempo, ma anche con parecchia urgenza visto che l'ultimo film di Miyazaki, Il Ragazzo e l'Airone, è ancora in tantissime sale (350 al 22 gennaio) e potete gustarvelo al cinema.
Poi tornate qua a leggere questo bellissimo pezzo del nostro grande esperto d'anime (oddio, detto così sembra un prete o un medium) Enrico, pezzo che magari vi aiuterà a "capire" o interpretare meglio un film che, mi dicono, è molto stratificato e tutt'altro che semplice.
In ogni caso voi, i vostri figli, i vostri amici, chiunque possieda due gambe e non sia una gru recuperi i film di Miyazaki, perché aiutano a vivere meglio.
Vi lascio alla mini presentazione di Enrico e poi alla recensione che, mi dice, avrà spoiler dopo la prima immagine (quella della bimba che imburra)

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Un film che non ha bisogno di presentazioni: “Il Ragazzo e l’Airone”, l’ultimo sforzo immane di quella che forse è la più grande personalità della storia dell’animazione, Hayao Miyazaki.
Come una seconda storia del ritiro, il sensei ha voluto nuovamente ribadire ciò che lascerà al mondo, la fantasia sconfinata, la natura sempre fonte di pace e ispirazione, ricordi d’infanzia, saggezza dell’età e vitalità della gioventù, l’amicizia, l’amore e tutto ciò che rende la realtà degna di essere vissuta.


Ci mancava, Hayao Miyazaki. Vorrei esordire così, pensando a quanto si può dare per scontato uscire di casa, sedersi su una poltroncina del cinema e vedere l’ultimo film del gran decano dell’animazione giapponese. Oggi il disegno non generato al computer è una vera rarità, e persino il concetto stesso di sala potrebbe avviarsi a diventare di nicchia. Quindi Il Ragazzo e l’Airone s’annuncia come la fine di un’epoca, sebbene già il saluto del regista ci fu nel 2014, con “Si alza il vento” – film che credo pochi non vedano come perfetto in tal senso.
Questa nuova opera, coerentemente, ha l’incedere pacato e a tratti veramente crudo, proprio di una storia della maturità e vecchiaia. Persino l’epoca storica è la stessa in cui Jiro Horikoshi sognava i suoi aerei con la linea a spina di pesce, accanto al suo idolo Giovanni Caproni. La guerra mondiale, sfondo non inusuale per lo Studio Ghibli, condiviso anche con lo straziante capo d’opera dell’amico mancato, Isao Takahata. Ma se la Tomba delle Lucciole portava i suoi due orfani di Kobe nel pieno dell’orrore, qui Miyazaki concentra tutto nei primi due minuti. La sirena, i tetti confusi nella notte, l’ospedale in fiamme, dove muore la madre del protagonista Mahito. Una sequenza mozzafiato, con le figure nere e indistinte della folla e le case, a contrasto col fragore e dolore del rosso fuoco, mentre la città brucia. E quella corsa, col mondo che si deforma, come nel corto di Animatrix “Storia di un ragazzo”.
Anche questa è la storia di un ragazzo, poiché il regista non rinuncia a una delle sue specialità, i protagonisti giovanissimi e vera fonte del cambiamento: Mahito, ancora tormentato dalla perdita, viene portato in campagna, lontano dalla guerra – i cui effetti però si sentono, con piccoli tocchi neorealisti, la invariabilità del (poco) cibo, le scarse sigarette, i domestici anziani, gli sparuti soldati in partenza. La tenuta è di sua zia, nuova compagna del padre con in grembo un bambino. Intorno, una torre dimenticata da tutti e un misterioso airone cenerino…



A un livello d’interpretazione più superficiale, oltre al suo tragico retroscena, ci troviamo davanti a quel classico personaggio osservatore. Tipologia che amo particolarmente, propria di quelle storie dove un umano, molto spesso un bambino, viaggia in un mondo fantastico e sperimenta gli accadimenti più surreali: Mahito è Alice, è Coraline, e sì, è anche Chihiro de “La Città Incantata”. E pure un po’ la piccola Mary, mascotte nonché protagonista assoluta del film d’esordio dello Studio Ponoc, quel “Mary e il fiore della strega” di cui ho volentieri parlato in questo spazio. Paragone non a caso, visto che per sostenere l’immenso sforzo di questo ultimo lavoro, che non ha avuto limiti di tempo né budget, il Ponoc ha dato il suo contributo artistico, assieme a qualche altra compagnia (Production I. G. e Studio 4°C per esempio), in quello che se non sbaglio è l’unico caso finora di outsourcing per un’opera del Ghibli. Insomma, un vero “ritorno a casa” per quegli animatori che se n’erano andati con Hiromasa Yonebayashi, quasi un decennio prima, e il risultato si vede tutto. Spenderò molti pochi elogi, a proposito, sull’estetica del film, per la semplice ragione che sarebbero lapalissiani: le parole semplicemente impallidiscono davanti a colori che paiono la tavolozza dei macchiaioli, sfumature che paiono slanci impressionisti, la riproduzione arcaica o raffinata, immediata o sofisticata, di edifici, interni, giardini, mari. Biblioteche che paiono rivaleggiare con quella mitica di Alessandria d’Egitto; scorci di coste che sembrano dell’Isola dei Morti di Böcklin, ma col sereno; la grande sala della torre, con le sue raffigurazioni elusive, degna delle fantasie più folli sui convegni massonici.



Tutto ci parla della immensa cultura di Miyazaki. E qui vorrei ritornare al protagonista e ai personaggi che lo circondano. Credo che Mahito rappresenti una delle due anime del suo creatore. Un giovane, certo silenzioso, e a suo modo adulto (la guerra indurisce presto i bambini), per come interiorizza le proprie ansie invece di esprimerle o chiedere aiuto. Emblematica in questo senso la terribile scena della pietra, dopo la zuffa coi compagni di scuola, quell’atto di automutilazione che lascerà il segno, “simbolo del male che c’è in me”. Eppure, come debbono essere i bambini, libero, curioso, coraggioso, permaloso, altruista, nido di quella insopprimibile vitalità di chi è giovane e deve imparare a incanalarla in qualcosa di positivo per volare in alto. Credo che nel corpo di quel vecchietto in Giappone quel bambino sia ancora più vivo che mai, anche se produce solo un minuto di animazione al mese e non più dieci come quando era un giovanottone rampante. E probabilmente ricorda ancora la sua vera infanzia, quella sua mamma spesso malata – ve lo ricordate? Uno spunto che aveva dato origine anche a “Il mio vicino Totoro” – perché il conflitto del nostro protagonista è tutto qui, in quella zia che ha preso il posto della sorella defunta, che le assomiglia persino come una goccia d’acqua. E che un giorno scompare, in quella misteriosa torre del suo prozio.
Prozio che, infine, si rivelerà come il demiurgo di quel mondo laggiù. E qui, a mio parere, c’è la seconda anima di Miyazaki: un uomo dai lunghi capelli e baffi bianchi, anziano, venerabile, benevolo ma occasionalmente spaventoso. Soprattutto, un uomo dalla conoscenza immensa, che viveva di fantasia, forse la più bella di tutte, cioè quella che scaturisce dalle pagine stampate dei libri. Che pure, in quei tomi si era perduto, inseguendo un mondo utopico. Potentissima la sua apparizione in scena, dopo che l’avevamo visto nell’ombra del “planetario”: il corridoio, la luce divina del porticato, e infine lui, seduto a un tavolino, che regge un intero mondo con delle piccole forme in equilibrio. Eppure il suo mondo ideale questo rimane, un ideale, che non ha la complessità del vero, perché quest’ultima comporterebbe guerre e altre brutture della nostra realtà. Brutture da cui, estrema ironia, nemmeno il “sotto” è esente: si intuisce dalla triste scena col pellicano morente, una fauna intrappolata nel suo ruolo predatrice in un mondo morto e di morti, dove ormai “i nuovi nati cominciano a dimenticare come si vola”, in contrasto con la specie parassitaria dei parrocchetti, che invece si sono duplicati a dismisura diventando quella dominante. Un paradiso in origine, di cui si scorge ancora la pace e bellezza volute, trasformato in inferno – per togliere ogni dubbio a riguardo, l’entrata della torre recita persino “fecemi la divina potestate”, citando il terzo canto della Divina Commedia di Dante (e dimostrando un fortunato miglioramento nell’italiano, rispetto ai tempi di “Porco Rosso”).



Alla luce del finale, credo sia chiaro quale di queste due anime il regista voglia dedicare a chi guarda. È un messaggio al futuro, anzi una domanda, cioè “E voi come vivrete?”, come recita il libro, e titolo originale del film, che la madre lasciò a Mahito (che ho scoperto essere reale, nonché storicamente accurato, poiché pubblicato nel 1937). Mi chiedo se sia lo stesso testo che Miyazaki cita come ispiratore in “Never Ending Man”, un bel documentario di qualche anno fa (attualmente lo trovate su Prime) che copre il periodo dopo l’annuncio del ritiro, un fallito tentativo con un corto in CGI e, appunto, la decisione per un nuovo lungometraggio.
Così tanti livelli di comprensione, così tante cose da dire che mi sembra di aver a malapena parlato del film. Spero faccia fede per quanto “piena” sia questa pellicola, ricolma di meraviglie nascoste come la bottega de “I Sospiri del mio Cuore”, che quegli interni tanto curati della tenuta mi hanno spesso ricordato. D’altronde è il lavoro di una vita, che esonda ovunque, lasciando qualche piccola crepa: dopo quella prima ora, semplicemente una delle migliori cose si siano mai viste al Ghibli, il film mostra qualche tratto di stanca, si autolimita nel dover comunque fare del worldbuilding nella stringata metà rimanente. Ma sono piccole cose, specie considerata la natura largamente interpretativa delle vicende. Il viaggio di Mahito può venir preso come tante cose, un’escursione fantastica in piena regola, una realtà universale che ha preso vita grazie alla pietra meteorica – dando varietà di retroscena sulla nascita della torre, aggiungendo un sano tocco da storia di fantasmi – o pura allegoria che come tale va presa. Ognuna di queste visioni può convivere con altre, senza intaccare minimamente la godibilità della storia.
Ogni momento è raccontato coi giusti tempi, lasciando parlare l’atmosfera e un montaggio veramente di classe, corredato da alcune transizioni magnifiche (l’acqua che diventa letto). Al resto ci pensa il talento imbattibile di Miyazaki per i personaggi, e la magia è fatta. Come al solito sono tutti caratterizzati splendidamente, non solo il protagonista, ma anche le figure più trattenute, il padre, Natsuko, la somma Himi, che con quel vestito, quella personalità e quell’origine urla “miyazakiana” da ogni tratto di matita; assolutamente da antologia il gruppetto di vecchie domestiche, dai tratti esagerati e le personalità così distinte (di cui una vedremo prendere vita persino in un doppio ruolo). Diamo atto in questo, pure ad un adattamento nostrano degno di questo nome, una schiera di doppiatori veramente azzeccata, e, già che ci siamo, pure a quel santo alla Lucky Red che ha detto “magari questo film testamento stavolta non facciamolo fare a Cannarsi”. Tuttavia il palcoscenico, a mio modesto parere, è completamente rubato da lui, l’airone cenerino. E visto che il film si chiama “Il Ragazzo e l’Airone”, parliamo un attimo di questa creatura.



Innanzitutto, un sovvertimento dei ruoli completamente inaspettato. Tutti conosceranno la filosofia ambientalista dello Studio, il ruolo salvifico e delicato della Natura nei suoi racconti. (Onestamente, “Il Ragazzo e l’Airone” è una delle pellicole dove si nota di meno.) Dunque che colpo dare un ruolo così ambiguo all’animale, la percezione che ci sia qualcosa di “sbagliato” in quella creatura, la conferma in quel brevissimo momento alla finestra, quando Mahito non sta guardando, e in un istante di orrore scorgiamo i denti uscire dal becco. Per la prima ora è sfida aperta tra i due, con momenti anche di tensione (il picchiettare delle zampe sul tetto, la “sfida” al laghetto, la prima volta in cui udiamo la voce). Poi, l’altrettanto inaspettata contro svolta, la scoperta del “nasone” dentro quella pelle (adoro il fatto che non ci verrà mai spiegato nulla a riguardo), la personalità caciaresca, l’inizio di un atipico film di coppia, carburato dalla splendida quanto improbabile amicizia tra i due. Insomma, si rivela pure un lato divertente della vicenda, in cima a cui siede l’irresistibile scena del tappo per il becco. Vogliamo poi parlare degli scontri imbottiti di umorismo nero coi parrocchetti… che, non so se l’ho detto, non sono affatto piccoli e simpatici, bensì bestioni infestanti e carnivori.
E potrei andare avanti ancora per ore a parlare di tutto il bello che ho trovato in questo stupendo cartone. Tuttavia, le cose belle durano poco, come ci ricorda quel finale troncato – che non sarà la conclusione che ci aspettavamo, ma almeno nel mio caso, forse solo perché avrei voluto stare nel film ancora per un poco – e, dicevo, sono i nostri ricordi a tenere vivo il bene che ci hanno dato. Quindi, tocca anche a me dare il mio saluto a Miyazaki, rincuorato, sapendo che il nostro vuole spingerci a scegliere un mondo migliore. Sì, Miyazaki ancora una volta ha scelto un mondo con le piramidi.

3 commenti:

  1. Ciao Enrico, splendido il tuo commento. Ti leggo spesso ma non vedo molto di quello di cui scrivi però quando avviene non posso che ritrovare le mie nelle tue suggestioni
    Non hai scritto solo delle splendide musiche di Hisaishi (spero si scriva così) in perfetto accordo con l'opera e che hanno regalato fascino sonoro all'incanto visivo.
    Non ho molto da aggiungere se non che la figura del vecchio l'ho trovata estremante potente, evocativa come mai avevo percepito in personaggi simili, per età, nei film di Miyazaki "un uomo dai lunghi capelli e baffi bianchi, anziano, venerabile, benevolo ma occasionalmente spavento..." Mi ha colpito e in qualche modo rattristato perché ho avvertito l'addio, perché non poteva che congedarsi così: la sua infanzia, i passaggi propiziatori, i vivi, i morti, la magia e infine il venerabile vecchio.
    Magari mi sbaglio... O almeno così vorrei

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    Risposte
    1. Ciao Angela, mi fa sempre piacere leggere i tuoi preziosi spunti. Hai ragione, avrei dovuto spendere almeno qualche parola per la colonna sonora, ma credo che le lodi per il compositore siano ormai quasi superate, è semplicemente uno dei migliori della storia del cinema. Potrei aggiungere solo che ho fatto poco caso alle musiche, tanto erano perfettamente integrate con le immagini, e aspettano solo di essere riascoltate singolarmente per apprezzarle al meglio.

      Sì, quel vecchio è una figura enorme, come se esprimesse tutta una vita passata, nella finzione come nella realtà del suo autore. Anche lui con una certa età ormai, sappiamo tutti che non vivrà per sempre... quindi il fatto che pure nel suo testamento artistico pensi al futuro, a "noi", rende lui e i suoi risultati artistici tanto più preziosi.

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    2. Vero, musica e immagini formano un connubio perfetto e riconosco anche quanto sia prezioso l'universo unico e stratificato creato da Miyazaki.
      "Ogni stella non è che una cellula dell'universo" (cit. Spazio 1999).
      Ciao Enrico, alla prossima!

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