16.1.24

Recensione: "Foglie al vento" - Passeggiate, il cinema della poesia - 24 - di Roberto Flauto

 

Credo che Fallen Leaves (Foglie al vento) sia un film molto nelle mie corde.
Il fatto è che mi sono ritrovato in mail (mandata 13 giorni fa, vista solo adesso!!) la recensione del mio amico Roberto, di cui, tra l'altro, sono secoli non metto nulla (per la sua bellissima rubrica "Passeggiate", trovate tutte le altre recensioni nell'etichetta omonima).
E allora mi son detto che un film così dolce e poetico (presumo, si nota facilmente) nessuno l'avrebbe potuto raccontare meglio di lui.
Quindi sticazzi se lo vedrò e non "potrò" scriverne (che poi, alla fine, posso uguale), per adesso beccatevi la recensione del grande Roberto
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L'incontro di due solitudini, la ricerca continua di un riflesso in cui finalmente riconoscersi, un film delizioso, delicato, col cuore di tenebra, che ci ricorda che la vita a volte è sopportabile.




Il mio arrivo nella città di N.
È avvenuto puntualmente.
 
Il riverbero tipico da castello abbandonato ha preso il controllo dei nostri cuori, affetti da desideri, malinconia e blu. Ogni stagione è una sfumatura diversa dell’autunno. La speranza è stanca, la ripetizione è cornice temporale e io non sono qui. C’è l’efferata dolcezza del sogno – che ancora culla. E c’è la dolce efferatezza del mondo – che àncora tutto. Tra questi due terminali, si tessono le trame di esistenze come le nostre (così uniche, così anonime, così ultime, così cosmiche). Mentre il castello si riempie di fantasmi, non facciamo che corteggiare l’istante, nel perpetuo tentativo di tenere a bada l’abisso, di accarezzare il mostro, di respirare gli amori esplosivi che abbiamo racchiuso in lettere mai scritte per destinatari anonimi. 
 
Eri stato avvertito
con una lettera non spedita.
 
Ho niente di niente e me lo tengo largo, perché mi va stretto e forse me lo merito. Il fantasma del castello sono io (siamo noi, ma ancora non lo so). E sono il castello, e sono in rovina. Intorno mi cade la neve (e io sono la neve). La ripetizione, l’ho già detto, la ripetizione. E tanta delicatezza, la stessa discrezione di un sogno che muore senza disturbare. Le deliziose trame mortali di cuori bambini affamati di storie – sempre sull’orlo dell’avventura, sempre impauriti, sempre impavidi (e allora aspetto giorni interi all’uscita di un cinema). Perché anche io ho niente di niente e ve lo tengo lontano, perché amo il mondo e tutto ciò che contiene, malgrado i graffi che mi ha lasciato sul cuore (sepolto nella neve che sono, che sei, che sì amo ancora noi ma non lo so).
 
Hai fatto in tempo a non venire
all'ora prevista.
 
Accade che una musica. (È sempre colpa della musica). Accade che il mio amico, accade che la tua amica. Insomma, non accade niente che non sia veramente tutto. E non si può più tornare indietro: è già tardi (?), è troppo presto per sposarci al chiaro di quell'altrove che è vita (?), quanti giorni: quanto niente: quanti sbagli. E tutto quello che vorrei è. Tutto quello che vorresti è. Ancora musica – inaspettata, desiderata, complice di tutti assassinii di cuori come i nostri (come i mostri).
 
Il treno è arrivato sul terzo binario.
È scesa molta gente.
 
Tenera è la notte di chi ha incrociato gli occhi dell’amore – e allora tenebra è la notte, perché l’amore ha i tuoi occhi di cervo, di bambina, di candela flebile immersa nel vento (come le foglie che siamo) che resiste a tutto (temporali, guerre, anni, mesi, giorni, ore, minuti, istanti). Perché poi in quegli occhi io ci sono morto, il mio cadavere galleggia in oceani sconfinati, così come il tuo, che nella tempesta dei miei occhi ha trovato quella morte che solo la tenerezza della notte è capace di sbocciare (dolce efferatezza, efferata dolcezza: I said before, don't be distracted). È accaduto in quella notte, in quella musica, in quella disperazione così soffice da essere al tempo stesso il tempo stesso, eppure qualcosa: il silenzio della tua voce che canta la tua voglia, la mia stessa voglia, di essere riconosciuto. Nel traffico della vita, qualcuno mi ha preso per mano.
 
L'assenza della mia persona
si avviava verso l'uscita tra la folla.
 
Intrusioni di mondo (la realtà che infuria, si infiltra dalle onde radio, frequenze di brutale realtà). Ma la guerra noi l’abbiamo già vinta – allora perché mi sento prigioniero? Erigo muri di alcol, fiumi di insistente difesa, tuttavia incapaci di resistere alla straripante, indomita, irrefrenabile tenerezza della notte dei tuoi occhi (di tenebra, di neve, di cane che sta per essere ucciso ma viene salvato da una carezza che fa fiorire i giorni). E quindi siamo io e te, il mondo non ci appartiene, eppure lo conteniamo, siamo il cosmo, siamo lo spaziotempo, siamo musica, passeggiate, cinema, cena a lume di candela. E ancora non ci siamo presentati, non conosco il tuo nome, tu non conosci il mio. Ci rivedremo ancora? Davvero vuoi conoscermi, sapere chi sono? Su questo foglio di carta ho scritto il mio numero. Chiamami, scrivimi, cercami, salvami. Lo farò, amore mio. Ma è un attimo. Prima che possa leggerlo, quel foglio di carta se lo porta via il vento.
 
Alcune donne mi hanno sostituito
frettolosamente
in quella fretta.
 
La vita, come possibile. Il lavoro precario, gli alimenti scaduti, il reparto dei surgelati, il cantiere, una stanza che casa intera, l’alcolismo, la depressione, un libro di storie per bambini, un film sugli zombi che è una metafora sbagliata ma a noi non importa, il karaoke, la musica, l’ironia, il tempo sospeso, ritrovarti svenuto di notte su una panchina, assicurarmi che il gelo non ti graffi il cuore, il mio amico cantante, la tua amica che parla sempre mentre tu non parli mai, ma quante cose dicono i tuoi silenzi carichi di galassie, perdere il lavoro, l’instabilità di foglie al vento, lavare bicchieri vecchi di giorni, perdere il lavoro ancora una volta, innalzare muri di protezione contro di te che mi chiedi di essere vero, e io non ti perdono di amarmi così immensamente, perché ho paura, perché hai paura, perché malgrado la povertà, l’incertezza, la precarietà assoluta, nonostante tutto posso ingiallire di colpo, benché non ci siano che neve e vento e musica e fantasmi: lui e lei credono di non meritare la felicità, eppure si guardano negli occhi. Soli, come solo certe stelle.
 
A una è corso incontro
qualcuno che non conoscevo,
ma lei lo ha riconosciuto
immediatamente.
 
No, non mi ha detto come si chiama. E ho perso il foglio di carta su cui aveva scritto il suo numero. È la donna della mia vita. Lo so, lo so, lo so. No, non mi ha più richiamato. E non so neanche il suo nome. È l’uomo della mia vita. Ma io non gli piaccio, altrimenti mi avrebbe chiamato. Che cosa mi ero messa in testa? Lo so, lo so, lo so. Il tempo passa – nevoso e beffardo, come sempre – e pesa di ogni singolo istante (efferata dolcezza) poiché la cosa peggiore che possa capitare a un condannato a morte è la speranza di farcela (dolce efferatezza).
 
Si sono scambiati
un bacio non nostro,
intanto si è perduta
una valigia non mia.
 
Aspettare, aspettarti, senza aspettarsi niente. Perché, sai, quel giorno, o meglio, quella sera, era notte, quel vento, il biglietto, il numero, scusami, non so parlare, vuoi sposarmi? (delicatezza, ironia, pensosa leggerezza, l’abisso a portata di mano, quotidianità stordente, l’irriverenza dell’amore che se ne fotte di vestirsi di ridicolo, lo straripare della vita che – chissà dopo quanto, forse per la prima vera volta – nasce).
 
La stazione della città di N.
Ha superato bene la prova
di esistenza oggettiva.
 
Si tratta di un modo per dare un nome alla solitudine. Un senso al divenire, una direzione al caos, una forma all’impalpabile sostanza dei sogni lasciati ad asciugare al sole. E allora neve, e allora autunno, e allora musica. Il castello, la stazione, la città di N. e il mio arrivo puntuale a un’ora imprecisata e chiedo scusa se sono caduto preda di una poesia che non so gestire. Si tratta della dialettica tra pieno e vuoto, tra la tentazione di fermarsi e la necessità di proseguire, tra l’esplosione della nascita e l’implosione della morte, tra l’ascia che rompe i mari ghiacciati dei nostri cuori e lascia che tombe siano i mari ghiacciati dei nostri cuori. Si tratta di me che non so stare al mondo e si tratta di te che non sai stare al mondo, perché non abbiamo capito che si nasce senza esperienza, si muore senza assuefazione. Si tratta di noi, solo di questo, di nient’altro. E quindi ogni cosa. E quindi tu sei casa.
 
L'insieme restava al suo posto.
I particolari si muovevano
sui binari designati.
 
La radio non fa che ricordarci che siamo fortunati a essere qui, in quella parte di mondo in cui anche la disperazione ha il diritto di esistere, in cui anche chi si è arreso può non arrendersi fino a rendersi conto che – in fondo, dopotutto, malgrado e grazie a ogni bacio – la vita a volte è sopportabile.
 
È avvenuto perfino
l'incontro fissato.
 
Come foglie al vento, ci lasciamo trasportare in ogni direzione senza chiedere spiegazioni. Vorrei che tu fossi qui, amore, insieme a me, acconto a me. Chiamami, scrivimi, cercami, salvami. Anche io vorrei che tu fossi qui, con me, a casa mia, che potrebbe essere nostra, che potrebbe essere castello, fantasma, neve, notte tenera, notte tenebrosa, musica da danzare senza fine, senza inizio, sempre nel mentre, sempre di nuovo perché ora che sono nato non voglio smettere. Come foglie al vento: voci indistinte di un canto ben riconoscibile: voci nitide di un canto indistinguibile dal vento (che trasporta foglie che chiudono gli occhi fortissimo).
 
Fuori dalla portata
della nostra presenza.
 
Poi capisco che posso fare a meno di un milione di cose, forse di tutte le cose, ma non di te. E io capisco che posso abbandonare un milione di cose, forse tutte, ma non te. E allora ti chiamo. E allora io rispondo. E allora posso venire da te? E allora vieni immediatamente. Ma stavolta non è il vento a frenarmi, è un autobus che mi travolge e mi manda in coma. Io non lo so, ti aspetto ancora. Fuori è notte e buio e piove e piovo anche io.
 
Nel paradiso perduto
della probabilità.
 
Noi non siamo soltanto due solitudini che si aggrappano all’idea di un amore idealizzato. Sì, è vero, siamo come foglie al vento, ma non perché non sappiamo prendere una direzione, auto-condannati alla non scelta. Siamo foglie al vento perché sfuggiamo a ogni schema, non inseguiamo alcun feticcio, il nostro non è l’amore romantico, l’ideale amoroso codificato dalla letteratura, dal cinema, dall’arte, il nostro è l’amore deschematizzante, quello che sovverte i dettami del codice genetico, che curva lo spaziotempo, che fa tenera la notte, che fa piovere le cose e allora forse abbiamo scritto un libro del tutto inedito, che non troverà mai le stampe, per un pubblico inconsapevole, illetterato. Abbiamo girato un film invisibile, abbiamo composto una musica di frequenze inudibili, abbiamo dipinto la luminosa oscurità dei fantasmi che siamo. Io non lo so, io non lo so che cosa è accaduto. Voglio dire, ero andato col mio amico a ubriacarmi al karaoke. Capisci, cosa intendo? Io avevo solo detto di sì alla mia amica, perché dopo una giornata al supermercato avevo bisogno di un po’ di musica e di silenzio. E quindi – inaspettati, letali, bellissimi – i tuoi occhi. Perché io ti sono vicino, anche ora che sei in coma. E allora ti amo e allora mi sveglio e allora non lo so. Non ho più niente, neanche i miei vestiti. Ho smesso di bere, perché voglio ubriacarmi soltanto di te (e di musica e di neve e di possibilità inaudite). Mi prendi per mano. Ti prendo per mano. Anche se zoppico. Hai preso un cane. Abbiamo un cane. Cominciamo a camminare insieme. L’apertura alare del tramonto abbraccia il nostro cammino e io – e anche io – sento il calore di casa che mi scalda il cuore.
 
Altrove.
Altrove.
Come risuonano queste piccole parole.
 
 

 

5 commenti:

  1. recensione bellissima di Roberto Flauto e Wisława Szymborska :)

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    1. La "pensosa leggerezza" di questo film - così delicato e sognante e al tempo stesso così malinconico e complesso - mi ha fatto pensare subito alla poesia delle Szymborska. In particolare a questa lirica, che racconta di due solitudini che si incontrano, forse solo immaginate, che inventano un motivo per resistere agli assalti della vita. Un po' come i protagonisti del film. Grazie per il commento :)

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  2. Leggere il l tuo commento é proprio come aver viaggiato senza valigia su un treno mai preso e...

    "Se non dovessi tornare,
    Sappiate che non sono mai partito.
    Il mio viaggiare
    È stato tutto un restare qua,
    dove non fui mai."

    E dove siamo sempre.
    Nei giorni uguali e sempre diversi, nei silenzi mai muti, nell'attesa che si perpetua, nella certezza che l'atteso che non aspetti, inaspettato, con grazia e senza fragore, come foglie al vento, arriva.
    Grazie Roberto.

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    1. Grazie, Angela, rendi preziosa ogni cosa con la tua delicata complessità. Riesci sempre a cogliere il segno, a lasciare la tua impronta.

      Sì, dove non fummo mai e dove siamo sempre: è proprio quello il luogo dove accade la vita. Una dialettica di opposti che continuamente si significano, come una passeggiata sulle scale di Escher, un viaggio senza valigia sul treno mai preso per non so dove che viaggia alla velocità di foglie al vento e allora forse non è impossibile essere felici.

      Grazie di aver scritto. Un caro abbraccio.

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    2. La felicità é esercizio e abbandono, trattenere e lasciare andare.
      Si é felici ignorando di esserlo.
      Ti abbraccio anch'io

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due cose

1 puoi dire quello che vuoi, anche offendere

2 metti la spunta qui sotto su "inviami notifiche", almeno non stai a controllare ogni volta se ci sono state risposte

3 ciao