9.10.18

Recensione "Mayhem - Disperata Ricerca" - Joseph Mehri - 1986 - Boarding House - 13 - di Giorgio Neri

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Torna la rubrica esterna più longeva de Il Buio In Sala, quella curata da quel pazzo assurdo di Giorgio Neri.
Torna, al solito, con uno dei suoi introvabili, malati, sporchi cult degli anni 70 e 80, film che ha visto solo lui e che nessuno come lui in Italia conosce così bene. 
Stavolta, in fondo, c'è anche il link del film!
Vi lascio alla solita delirante ma lucida, malata ma molto competente, recensione di Giorgio

Ah, trovate le altre 12 puntate sull'etichetta Boarding House, a sinistra nella home page del blog


“Vaffanculo” è una parolina magica
che risolve molti problemi.
Jim Morrison

Chi bazzica tra i cestoni dei dvd dei centri commerciali, possedendo
una profonda ed inveterata curiosità, sarà sicuramente stato attratto
dai prezzi bassissimi dei dvd di questo regista e produttore siriano:
Joseph Merhi che, insieme al suo collega Richard Pepin (una specie di
tuttofare: si ritaglia ruoli di direttore della fotografia, montatore
e anche produttore all’occorrenza), ha avuto una discreta carriera
negli anni Ottanta e una notorietà nel XXI secolo - sul web - come
regista peggiore di Edward D. Wood Jr.
Eppure Joseph Merhi ha concepito ed iniziato la sua carriera
cinematografica con un film che ha diversi elementi in comune con Henry - Pioggia Di Sangue di John McNaughton.
Stesso anno: il 1986.
Due protagonisti: nel film di McNaughton sono due sadici e serial
killers; in Mayhem sono due “giustizieri” che fanno piazza pulita di
delinquenti e spacciatori.
In mezzo alla violenza, una donna che nel film di Merhi si sdoppia in due.
Unica differenza - a parte che McNaughton ha una capacità registica
migliore e una raffinatezza invidiabile nel trattare la violenza - è
il fatto che il film di Joseph Mehri andò in sala nello stesso anno in
cui uscì mentre Henry apparve al cinema solo nel 1989.

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Ma cos’ha di speciale questo film?
È genuino e senza sofismi di sorta nel trattare la disperazione e il
caotico mondo dell’esistenza dei personaggi coinvolti (“mayhem”
significa, infatti, Caos).
La violenza è violenza, gli uomini si scannano, le donne si prostituiscono.
Inoltre, possiede la qualità imprescindibile tipica di chi ama il
cinema e vorrebbe farne il lavoro della sua vita. Come Ed Wood con
Plan 9 From Outer Space (1959), come John Wintergate per La Casa Del
Sortilegio (1982), come il film-tesi di laurea Combat Shock di Buddy
Giovinazzo (1986) o come qualsiasi altro sedicente regista che abbia
racimolato un poco di denaro e messo in piedi un cast cogliendo al
volo l’opportunità del “video” (s’intende l’utilizzo di
un’attrezzatura televisiva), Joseph Merhi ha il pallino di Hollywood,
la cosiddetta Mecca del Cinema. Infatti, Mayhem, da questo punto di
vista, è un omaggio ossessivo alla città di Los Angeles; le insegne
spesso riportano la scritta “Hollywood” nei vagabondaggi dei due
protagonisti (attraversano anche il quartiere Chinatown). La volontà
di voler penetrare in quel mercato è evidentissima.
Ma Mayhem non è una commedia romantica come il primo film del regista,
Hollywood In Trouble (1986); non è la storia di un pizzaiolo che vuole
fare un film con gli amici e avere successo, perché sogna Hollywood
come fosse un paradiso di gloria.
Joseph Merhi, da bravo produttore di sé, ha intercettato il mercato di
quegli anni. L’horror e la violenza di strada fanno guadagnare e lui
abbandona la commedia. Su questa linea s’inseriscono gli altri film -
reperibili in italiano per l’etichetta di dvd Futurama: Epitaph -
Follia Omicida (1987, horror); Strade Violente (1988, thriller urbano
con attori neri); The Killing Game (1988); Le Belve Umane (1988); L.A.
Crackdown (1988). Sette capolavori, tutti degli anni Ottanta.

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Dico “capolavori” perché la pochezza di mezzi, gli accorgimenti per
ovviare ad alcuni problemi tecnici, la volontà di portare a termine il
film (si sente parecchio) e soprattutto la schiettezza, l’asciuttezza
e l’assenza di una struttura che renda i film più cinematografici che
documentaristici, mettono in evidenza uno stile, cioè lo stile di
Merhi, buono o cattivo che sia. Ovviamente è un regista improvvisato e
forse sprovveduto come tutti i mediorientali con il pallino del cinema
- ricordiamo che i produttori di Henry erano originari della
Giordania, Malick e Waleed B. Ali - ma è questo che rende il cinema
ancora capace di seminare qualche germe di novità. L’affettazione
della storia, l’eccessiva raffinatezza dell’immagine, i bei primi
piani degli attori, a meno che non vengano trattati da una solida
sceneggiatura, sono l’eredità del vuoto digitale e di un XXI secolo
ormai imposto alla commerciabilità della bella immagine che deve
essere come un selfie passato ai filtri di Instagram e postato bene.
Dov’è la sporcizia? Dove lo schifo? Dove l’assurdo personaggio
monolitico, che non è un eroe né un killer ma un povero freak senza
qualità e misantropo all’eccesso?
Eccolo, è il Dino interpretato da Raymond Martino: capelli neri, mossi
e a zazzera, occhi a palla spiritati, naso a patata con froce larghe,
denti sporgenti, basso di statura, tutto muscoli ma con un filo di
pancia, il “matto” per eccellenza armato fino ai denti.
All’inizio del film si prepara un bel bibitone frullato.
Poi si veste con un impermeabile verde militare, pistola e fucile a pompa.
Apre la porta e una gatta nera sbuca nel suo appartamento, lui la
sgrida ed ecco il primo flashback. Nel campo-controcampo Dino ora si
sta rivolgendo a Rachel, rimproverandola di andarsene in giro alla
notte con qualche “stronzo”. Lei non lo sta a sentire, lo offende.
Per tutta risposta, Dino le punta una pistola, gettandole in faccia la
parola magica:
“Vaffanculo!”.
Asciutto, tagliente. E sappiamo già con chi abbiamo a che fare.
Nonostante si critichi molto il film per l’assenza di una psicologia
che caratterizzi i personaggi, è questa essenzialità ed immediatezza
il vero interesse della storia.

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I luoghi comuni ci sono tutti per quanto riguarda il vissuto del
protagonista del film: si scopre che Dino avrebbe voluto avere un
figlio da Rachel; quando lei rimane incinta, non lo accetta e vorrebbe
abortire; lui decide di staccarsi dalla società civile insieme a lei,
e fino a che non abbia portato a termine la gravidanza. Allora, lei
scappa e, verso la fine del film, scopre che si spoglia in un
night-club. Ma non l’ammazza.
Perché?
Qui entra in gioco l’altro personaggio: Ziggy è un ruffiano che vende
Misty (interpretata da Pamela Dixon, attrice feticcio del regista) per
fare soldi; lei è incinta ma, a causa di un battibecco avuto con Ziggy
(incerto sulla paternità del figlio), scappa e viene rapita da un
gruppo di depravati. I due protagonisti-giustizieri la cercano e fanno
un massacro.
Però Ziggy ci rimette la pelle.
Dino, quindi, rivive la stessa vita che nei flashback lo hanno
tormentato. Ora deve prendersi cura di una donna incinta e riportarla
dai suoi genitori a Boston. Deve, in poche parole, occuparsi di una
“nuova Rachel”: un tema abbastanza usuale, questo dell’Eterno Ritorno
e della falsa speranza di una vita diversa. E gestito da Merhi senza
tante intromissioni melodrammatiche o patetiche che avrebbero
appesantito la trama.
Dino le insegna a guidare e lei sbanda su una strada, zigzagando. In
un caffè, per puro caso, i due stanno per innamorarsi. Ma due agenti,
che hanno avuto la segnalazione di una guida pericolosa
(l’efficientissima forza dell’ordine reaganiana), rintracciano l’auto
di Dino ed entrano nel locale. Dino crede che vogliano arrestarlo e
cerca di farli fuori. Ma sarà lui a morire e Misty farà finta di
essere un’autostoppista, cioè di non conoscerlo.
Fine del film.

C’è sempre qualcosa di più in prodotti così poco raffinati.
È vero che un regista dovrebbe essere capace di trasmettere le sue
“idee profonde” nel film e se ciò non avviene, come per la maggior
parte delle critiche che hanno colpito e stigmatizzato la filmografia
di Joseph Merhi, allora vuol dire che esse non esistono e che il film
è solo ed esclusivamente un B-movie, anzi uno Z-movie.
Allora, cosa c’è qui?
L’assoluto nichilismo, l’umanità ai più bassi vertici del crudo e
animalesco istinto.
Nessun personaggio si salva.
Dino è un sociopatico distrutto dalla gelosia ma anche
dall’impossibilità di vedere una donna come un essere libero, che
vuole realizzarsi - nel cinema, come il regista Merhi...
Ziggy è un cocainomane, pappone e procura lavori da repulisti-giustizialisti.
Misty è un’accompagnatrice che vorrebbe cambiare lavoro.
Rachel, dopo il matrimonio con Dino, è isterica, vorrebbe abortire
solo per un improbabile successo nel mondo del cinema; poi scompare e
finisce a fare spogliarelli.
Il primo gruppo di delinquenti sevizia e stupra bambini e la donna che
gestisce quella specie di bordello, trovandosi la canna del fucile a
pompa di Dino in mezzo alle gambe, sbotta, urlando e sputandogli in
faccia, che “me li sono scopati tutti, quei bambini!” - difficile che
in film simili del periodo venissero dette parole del genere da un
personaggio femminile, sebbene si era già visto Anna Prucnal sedurre
spietatamente bambini sulla sua nave nel film Sweet Movie - Dolcefilm
di Dusân Makavejev (1974).
[Ovviamente si lascia qui il beneficio del dubbio, visto che gli anni
Settanta sono pieni di molti altri film meno conosciuti che aspettano
di regalarci tali provocazioni...].

Il maschilismo autocosciente (“le donne vengono chiamate puttane dai
loro uomini solo per modo di dire, è un atteggiamento maschilista.
dice Ziggy) e il machismo imperano.
L’azione predomina sul ragionamento.
Il giustizialismo e le armi sono le uniche soluzioni ad una
criminalità spietata e schifosa.
Ma Joseph Merhi non s’immerge in maniera manichea in questo gioco e,
senza schierarsi se non dalla parte di una storia di disillusioni e di
crudeltà, distrugge i simboli della felicità e della gioia: nonostante
il sacro vincolo del matrimonio, il nucleo familiare non si può
ricomporre per chi si è macchiato di omicidi, anche se commessi contro
criminali; Los Angeles ha vicoli luridi, periferie merdose, peep-show
ad ogni metro, cinema a luci rosse (che infettano come un virus
l’amata Hollywood), hamburger pieni di schifezze (dichiara Dino, il
salutista), drogati e spacciatori, puttane e ruffiani.
Homo homini lupus, direbbe Hobbes.
Per tutto ciò il film Mayhem non poteva che essere spoglio, scarno,
illuminato quanto basta e senza tanti accorgimenti, privo di un climax
ampolloso e pomposo, depresso, triste, cafone, sordido, senza una sola
complicanza psicologica o un colpo di scena. La sopravvivenza è dietro
l’angolo, sempre; la felicità non esiste e Dino non ci vuole andare in
Alaska anche se, come gli dice Ziggy, lì hanno un 15% in più di vita.
La relazione umana infetta e distrugge perché nulla di ciò che è umano
è gioioso.

Le note dolenti sono le sparatorie: gli stunt-men paiono imbalsamati
mentre esplodono dalle loro camicie schizzi di sangue e la musica di
John Gonzales non c’entra nulla con l’atmosfera del film - ma Sergej
Ejzenstejn parlava di conflitto e contrappunto...

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A parte ciò che è già stato detto, gli altri aspetti interessanti sono:

1) Dino nel film dipinge il volto di una donna e sullo sfondo vi è un
uomo a cavallo...

2) Il protagonista di un film che si chiama “Dino” merita attenzione.

3) La battuta che riassume tutto il nichilismo illusoriamente capace
di risolvere i problemi relazionali con l’altro individuo e l’Altro
dentro di sé:
“Vaffanculo!”.

Secondo la mia modesta opinione, merita un remake.


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