8.10.18

Recensione: "Anatomia del Miracolo" - BuioDoc - 39 -

Risultati immagini per anatomia del miracolo locandina

Sant'Anastasia, Napoli
Siamo nei giorni della processione della Madonna dell'Arco, una Maria ferita nel volto che è punto di riferimento dell'intera, devotissima, comunità.
Ci sono una ragazza in carrozzina che non crede più ai miracoli, una pianista coreana che vede Dio nella musica e una trans che vive invece la sua religiosità in maniera più classica e sentita.
Dopo Il Libraio di Belfast un altro dolcissimo documentario di Alessandra Celesia, autrice che riesce sempre a star fuori da quello che mostra, a non dare giudizi, ma al tempo stesso ad amare le sue storie in modo assoluto

il film inizierà il suo tour di proiezioni a metà novembre



Mica facile recensire un film che hai presentato ad un festival parlando con la regista.
Chè poi uno può pensare che sei condizionato dalla cosa o, quantomeno, condizionato dalle sue parole.
Poi il giorno dopo trovi su facebook un commento di quello che, per te, era il "personaggio" (leggasi persona) più bello del documentario. E allora diventa ancora meno facile scrivere, c'è sempre quella fastidiosa sensazione che poi scriverai cose belle apposta.
E invece no, e invece le cose belle che scriverò son belle semplicemente perchè son belle, fatevene una ragione.
Avevo già "conosciuto" Alessandra Celesia col dolcissimo "Il Libraio di Belfast", un documentario sussurrato, tenero, una carezza nel viso.
E ritrovo qua lo stesso modo di approcciarsi alle cose di Alessandra, quel suo "star fuori" da quello che mostra facendoci comunque sentire la sua presenza, il suo amore per l'umanità che racconta.
Che poi vai ad analizzare il titolo, con quella parola così fredda, "anatomia", e qualcosa non ti torna.

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Perchè se è vero che lo sguardo di Alessandra riguardo la materia del film è distaccato, non personale, oggettivo (tanto che io non avevo nemmeno capito se fosse atea o religiosa) e quindi sì, quello che vediamo è effettivamente il "corpo", la morfologia del miracolo, è anche vero che è invece molto personale il suo occhio, il come ci mostra le cose.
Potremmo dire, quasi con un ossimoro, che quello di Alessandra è un partecipatissimo modo di raccontare distaccatamente le cose.
Siamo a Napoli, più precisamente nelle frazione di Sant'Anastasia, frazione devota, devotissima, alla Madonna dell'Arco, una Maria ferita in volto, diversa dalle altre.
Seguiamo principalmente la storia di 3 personaggi, una trans completamente inserita nella comunità e nella vita religiosa della città (tanto che partecipa attivamente all'organizzazione della processione), una splendida ragazza sulla sedia a rotelle che ormai ai miracoli non crede più e una pianista coreana rimasta folgorata da Napoli.
Ne nasce un film che è tutto giocato sul numero 3.
Tre, ovviamente, che è anche il numero per eccellenza nel cattolicesimo.
Ma tre sono anche le "lingue" parlate nel film, lo stretto napoletano, l'italiano di qualche religioso (e della ragazza sulla sedia a rotelle) e l'inglese della coreana.

Ma tre sono anche i diversi approcci al "miracolo".
Quello di Fabiana (la transessuale) è classico, da perfetta devota, accecato dalla fede e incrollabile.
Quello di Giusy (la ragazza) è invece sul binario opposto, ovvero quello di un ateismo "razionale" che porterà, tra l'altro, a delle riflessioni straordinarie.
E poi c'è Sue che, a mio modo di vedere, è a metà delle due.
Perchè se è vero che la sua vita è completamente dentro la religione è anche vero che la sua ricerca in vita, il suo "miracolo", ha matrici più universali.
Per lei Dio è da ricercarsi nella musica, vero e proprio linguaggio divino.
Ad un certo punto dice una cosa bellissima, ovvero che l'uomo è l'unica creatura al mondo a non conoscere il suono del suo canto.
E lei quello vuole trovare, il suo canto o, citando Whitman come fa lei, il suo battito.
Una visione più ampia della religiosità che mi ha ricordato anche un certo animismo, tipico, ad esempio, degli anime di Miyazaki.



Ma tre sono anche i tipi di barriere che il film presenta.
Per Fabiana c'è quella dell'identità sessuale.
Per Giusy c'è quella della condizione fisica.
Per Sue c'è quella linguistica.
Sono tre modi diversi di non essere "uguali" agli altri, tre modi diversi di avere difficoltà nello stare al mondo, nel confrontarsi e nell'accettarsi.
E' come se le tre donne fossero tre esseri viventi "ibridi", una uomo-donna, una normodotata-handicappata, una straniera-napoletana, tre donne al confine tra due mondi.
Ma nel documentario, come avviene spesso con la Celesia, questi eventuali problemi non vengono mai mostrati con pesantezza, anzi, la diversità e le eventuali ferite sono prese con grandissima serenità e forza.
Non c'è mai commiserazione, mai esagerata pietas.
Verso la fine del documentario Giusy dice una cosa bellissima, ovvero che riesce a riconoscersi solo per come è, come se quella sedia fosse parte di sè, una sua protesi. Probabilmente, se guarisse, non riuscirebbe più a veder sè stessa.
Ma del resto l'accettare le nostre ferite, le nostre mancanze, i nostri handicap, la nostra diversità è qualcosa che, appunto, ci avvicina al divino.
Dio, o chi per lui, non ci premierà per le nostre glorie o i nostri diplomi ma per le nostre ferite.
Ed è così che un film con una base fortemente religiosa diventa qualcosa di molto di più, una laica e straordinaria riflessione sull'essere umano.
Si ride più di una volta, impossibile non ridere coi napoletani. Specie la piccola storia della pentola di fagioli fa tanto Napoli e un mondo che quasi non c'è più.
Ci sono momenti più di stanca e c'è la sensazione - forse unico difetto del film - che le tre storie non abbiano un adeguato epilogo.
Ovviamente questo non è cinema narrativo, non c'è un plot. Ma, tranne che per Giusy e quel commovente finale sulle note di Vasco Rossi, gli altri due personaggi li "perdiamo", li salutiamo, in un modo troppo normale, molto meno emozionante di altre sequenze in cui li avevamo seguiti.
Quello che resterà più di tutto di questo documentario sono i volti e le frasi.
Il volto di Fabiana, il volto di Giusy con quegli occhi che strabuzzano continuamente.
E tante frasi, bellissime.

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L'amore per il silenzio della notte di Fabiana, il dialogo sul miracolo tra le due sorelle coreane ( "il miracolo è un riflesso del paradiso" "no, è il riflesso del desiderio umano di sperare che c'è qualcosa di oltre"), la razionalità di Giusy ("io ci sono nata così, che male ho fatto?" "perchè se siamo 1000 persone alla processione Dio dovrebbe salvarne solo una?"), il bimbo che mentre ascolta suonare Sue le dice che la fa chiagne, l'ipocrisia della devota che dice a Giusy che evidentemente se non ha la forza necessaria per pregare la Madonna non è abbastanza disperata, i paesani che strisciano verso Maria il giorno della processione, i neomelodici che cantano disperati.
In un documentario che non dà giudizi, che si limita solo a mostrare e tratta una tematica come quella della religione con profondo rispetto.
Poi siamo noi spettatori, semmai, a giudicare quello o quell'altro.
La Celesia ci mostra cose, semplicemente.
Nella cornice magnifica di una città poi che appena ci entri dentro è già cinema.

Ma c'è una sequenza impressionante, qualcosa che dice ancora Giusy.
Lei adora le moto, quel simbolo di velocità così opposto a quel suo starsene ferma in una sedia dalla quale mai più si alzerà.
Un giorno il padre l'ha portata ad una gara.
Tutti hanno i tappini alle orecchie, lei no.
E quando la gara parte il rombo di 20 motori è assordante.
E Giusy dice che mai niente le è sembrato così vicino al miracolo come quel rombo.
Un rombo che ha scatenato una forza immensa, una scossa quasi tellurica, un qualcosa che ha dato la sensazione a Giusy di essere leggerissima, di potersi alzare, di volare.
Questo paragone tra la dirompenza di un miracolo e il rumore dei motori di una gara mi ha fatto tremare le gambe.

E finiamo con Vasco Rossi, con Giusy che lo canta a squarciagola.
E le parole di Vasco sembrano la sinossi del film.

Vivere, anche se sei morto dentro
Vivere, e sperare di star meglio
Vivere, e non essere mai contento

vivere

vivere, è come un comandamento
vivere, come stare sempre al vento

senza perdersi d'animo mai
e combattere e lottare contro tutto contro

oggi non ho tempo
oggi voglio stare spento

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2 commenti:

  1. Capisco perché tu l'abbia inserito tra i migliori documentari visti in questi anni. Un film che ho vissuto in maniera particolare, in quanto conosco questa tradizione, conosco quei luoghi e soprattutto quel senso di devozione "disperata" che qui viene raccontato. Del resto, la processione della Madonna dell'Arco è un rito (uno dei più "famosi", probabilmente) che testimonia benissimo la complessità del viscerale rapporto tra certe comunità del Sud Italia e l'esperienza religiosa.
    A parer mio, si tratta di un gran bel lavoro: un doc a regola d'arte, con intuizioni e soluzioni registiche davvero notevoli (penso alla prima inquadratura di Giusy, di profilo, mentre parla alla madonna come a un'amica; oppure al toccante finale), capace di restituire una spaccato che vorrei definire "sincero" di una realtà estremamente complessa, con un tratto che ricorda da vicino quello dell'inchiesta etnografica.
    Avrei preferito anche io una "conclusione" più significativa per le vicende di Fabiana e Sue, che restano in sospeso. Sarebbe stato molto più armonico, ma il risultato è comunque da premiare.
    Ottima la tua riflessione sul numero 3, sulla trinità degli approcci al trascendente, al rapporto con Dio, alla ricerca di sé.
    Perché credo che "Anatomia del miracolo" sia un piccolo, grande documentario che parla del desiderio/bisogno di credere, di vivere e di riconoscersi.

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    1. buffo come tu mi abbia commentato questo documentario mentre lo stesso giorno (o uno prima) un altro utente abbia commentato il film La Santa che praticamente parla, anche se in maniera thriller, della stessa cosa (una banda ruba la santa di una processione del sud)

      io ho conosciuto la regista e, l'ho detto più volte, è una delle donne più dolci, umili e disarmanti che io abbia mai conosciuto. Ti consiglio anche l'altro suo film, Il Libraio di Belfast

      sì sì, è molto sincero, la Celesia è una documentarista vecchio stampo, una di quelle che si limita quasi solo a documentare

      lo dimostra anche il fatto di quei finali un pò in sospeso, forse indice di una non sceneggiatura

      sono "amico" su fb anche di "Giusy Rotelline" (anche se non so si chiami ancora così), la ragazza in carrozzina del film. E, come si vede nel film, è una ragazza gioiosa che ama la vita moltissimo

      per il resto grazie dei complimenti e delle sempre bellissime osservazioni

      (devo leggere ancora The vast of night e pubblicare Paterson, è tutto sotto controllo ;) )

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