N° 7 JOKER E FRANZ (DI FREAKS OUT) – DUE MASCHERE AGLI ANTIPODI
“Siamo la Mont Blanc con cui ti faccio fuori
Siamo la risata dentro al tunnel degli orrori”
Se i pensieri avessero una colonna sonora questa qui di Ligabue adesso sarebbe perfetta.
Le osservazioni riguardo Franz e Joker su cui non ho potuto evitare di cimentarmi maturano da un debito intellettuale (ma anche, diciamo così, emotivo) con le analisi sempre illuminanti in cui ci si imbatte nel Blog, dove è impossibile non essere catturati dalla suggestione di una visione nuova, comunque diversa da quella che si aveva prima. Dico diversa nel senso che ti accorgi che ogni cosa avessi avuto in mente ormai non basta più e andare oltre è lo stimolo che feconda una necessità: quella dei viaggi dello sguardo interiore che altrimenti non avresti fatto e che ti conducono verso la tua parte migliore. Questo è successo grosso modo ogni volta che ho letto le recensioni del Buio (da cui nascono la maggior parte delle cose presenti in questo spazio) come risultato di un dialogo spontaneo, perché sarebbe stato impossibile convivere con gli innumerevoli sospesi sollecitati dalla profondità del contenuto e del linguaggio.
Le risposte che di volta in volta mi sono dato sono diventate altrettante parti qui pubblicate, insieme ad altre volente o nolente avvinte da quelle stesse suggestioni.
Quando nella recensione di Freaks out ho visto accostati Franz e Joker da Giuseppe, non ho potuto fare a meno di seguire quell’iperbole, trattandosi non solo di due personaggi ma di due “topos” del dramma contemporaneo. Approfondire per comparazione singoli aspetti o personaggi (come in questo caso) di un film è un esercizio che consente la lettura trasversale dei diversi piani del "testo", fino a dilatarne parti che possono divenire un discorso in sé.
Franz e Joker, quindi.
Due maschere condannate all’emarginazione perché il fallimento è reietto.
Il successo è lo status dominante.
Ma il disprezzo tradito dalle sue maschere rassicuranti trafigge l’anima.
Il ghigno di Joker è controcampo al sorriso di ogni melliflua benevolenza, ma anche e soprattutto all’insolenza con cui è inflitta la propria immagine vincente, tale perché sempre dal lato giusto dei muri invisibili dell’esclusione. E infine della smorfia di dolore e rabbia che è impossibile trattenere. Una maschera che si rivolge alle espressioni più civili del disumano, di cui si arrogano le persone ammodo nei gesti politicamente corretti in cui si compiace l’indifferenza. La crudeltà di Joker ci sbatte dall'altra parte di quel sorriso, conducendoci alle estreme conseguenze delle crescenti sfumature dell'isolamento. Una società che non pratica apertamente la violenza soltanto perché preferisce delegarla dove, forte della propria invisibilità, può colpire fino in fondo mentre si è impegnati a fabbricare giustificazioni morali. La maschera di Joker mostra chi e' quell'uomo se solo perseguisse fino alla fine la propria mostruosità, infliggendola a sua volta come uno specchio in cui è riflessa tutta la crudeltà della Storia. Il paradosso di Joker risiede proprio nella purezza della propria follia che ne rende l’aspetto più autentico di quanto ci sia dietro qualsiasi maschera.
E proprio in questo Franz e Joker rappresentano cose molto diverse.
Franz non è non e' nulla di quanto detto fin qui.
Egli incarna l'impotenza patologica dell'uomo forte, l'anima infantile che è sempre all'origine del potere e della sua capricciosa ostinazione (di cui in troppi portano i segni sulla pelle finché non diventi scorza). I suoi caratteri sono ovunque marcati dall'isteria: quando fracassa la testa dell'uomo con le branchie (per il fallito esperimento) e' il bambino deluso e infuriato che distrugge il proprio giocattolo difettoso. E’ perennemente schiacciato dalla frustrazione delle proprie aspettative: anche lui patisce un’esclusione impietosa ma ad essa offre l’ostinata obbedienza in cerca di riabilitazione, fino a cadere nella grottesca cecità di chi ha negato se stesso. Franz amputa di sé l'unica parte che ne sospendeva la disumanità, perché nel suo mondo (il nazionalsocialismo) ha solo questa per essere accettato e redimere il proprio fallimento. Matilde è quel mondo affettivo che gli è ormai precluso perché amputata è quella parte sua dell’anima, in quelle dita che ne erano la residua appendice. In questo sì è una vittima, essendo quella mutilazione inferta dall’odio di cui è stato nutrito, ma la colpa di Franz è l’efferato rifiuto di ogni possibilità diversa che avrebbe dato un senso a una fine che egli aveva il privilegio di vedere come inevitabile; e quindi perché non renderla meravigliosa visto che crudele è comunque destinata ad esserlo? Non è un caso che la sua “comprensione” di Matilde coincida con la fine del “mostro”, ma un’altra creatura sarebbe stata possibile se solo nr avesse avuto il coraggio. L’emarginazione di Franz passa per delle scelte: aspira a essere carnefice solo come la via più semplice per uscire dal ruolo di vittima. Tradisce se stesso e lo sa. Egli non ha mai voluto essere speciale ma esattamente come tutti gli altri, perché il conformismo è l’unico carattere che riduce alla normalità qualunque abominio. Pateticamente non ci riesce, deludendo le aspettative che sente su di sé. Franz incarna la psicosi collettiva del nazismo, che peraltro interpreta magistralmente. Vuole sentirsi parte dell’ordine costituito, esserne cullato e protetto come tra le braccia di un padre spietato la cui benevolenza faccia sentire al sicuro, ma soprattutto una volta per tutte speciale. Vero è che nessuno dei Freaks avrebbe cambiato la storia, ma è tutt’altro che una debolezza di sceneggiatura (questo capolavoro infatti non ne ha): con la cattura di uno di loro egli insegue il colpo di scena, come il bambino che si sogna prodigio per fuggire dallo sforzo di crescere. Vuole essere credibile al mondo perché credere in se stesso richiede un coraggio che non ha o in cui semplicemente non vuole imbattersi. Prevede il futuro sapendo bene che in quanto tale non può essere cambiato: e infatti non vuole cambiarlo, vuole solo entrare nel presente prima che il suo mondo finisca. Ma il tempo stringe impietosamente e lo sa.
Joker, a modo suo, ci restituisce la maschera che irride sprezzante le ferite dell’anima e che ha ridisegnato con il gusto beffardo del paradosso. Franz, al contrario, è fedele al suo mondo e cerca con ogni mezzo di farne parte, immolandone agli altari la diversità in segno di devozione filiale. Perché – a differenza del Joker – non ha nessuna coscienza critica ma solo l’incosciente obbedienza infantile che non sa e non può giudicare gli adulti, ma solo disperatamente assecondarli per esserne accolto.
N° 8 A CHIARA E ANIME NERE - LA SCHIAVITU’ DEL SANGUE
Guardando A Chiara continuava a tornarmi in mente Anime nere, che avevo visto molto tempo prima. Allora ho dovuto proprio rivederlo (e ho fatto bene) per capire meglio cosa pungolasse la mia memoria. La comparazione (come atto istintivo, non scolastico) ha anche il merito di creare qualcosa che vale più del contributo delle singole opere, eppure le valorizza per ciò che sono nella sostanza.
A Chiara e Anime nere sono due pellicole assolutamente sovrapponibili nell'essenza di ciò che rappresentano, ognuna però a modo suo. A Chiara ci mostra la sua storia dall'interno, scovando l’anima di un volto che condensa tutto ciò che accade intorno, al punto che non avremmo neanche bisogno di vedere. Siamo tutt’uno con quell'intensità' meravigliosamente umana e non ci serve altro. In Anime nere protagonisti sono i fatti e i personaggi li percorrono come un destino cui obbediscono secondo le regole classiche (e sempre valide) della tragedia. Ma sono due film che, sebbene di autori diversi, snocciolano lo stesso teorema offrendo epiloghi opposti pur partendo dalle medesime premesse: vicenda familiare nell'ambiente 'ndranghetista calabrese, mercato della droga nel deserto di qualunque altra economia, amori traditi di padri e figli che si scontrano sull’assurdità dei principi imposti dal “sangue”. Di differenze in realtà ce ne sarebbero e neanche poche ma non per quanto riguarda il topos, perché è lì che vedo addensarsi il senso e il motivo per cui due autori hanno deciso di raccontare queste storie, proprio nel modo in cui l’hanno fatto. Entrambe entrano nella carne viva del Clan visto solo secondariamente quale realtà di gestione degli affari, ma piuttosto come espressione di un’umanità recisa nella negazione di sé stessa. "Famiglia" per noi non è la stessa cosa: qui parliamo di una sedimentazione storica e antropologica la cui forza non lascia spazio che a se stessa e il cui retaggio è il tema. E quel tema qui diventa lo scontro tra genitori e figli come “sangue del sangue”, generato e versato con la stessa continuità: legame viscerale e morte. Lo scontro tra padri e figli si consuma nella coincidenza delle dimensioni territoriale e carnale, in cui vale la stessa schiavitù. Non a caso i due autori esplorano lo stesso entroterra mafioso in cui le ribellioni condividono il medesimo conflitto, seppure invertendone gli interpreti. Perché il teorema ci rivela anche che cambiando l'ordine dei ruoli il risultato non cambia: una figlia vive come un orribile tradimento il fatto che il padre (che è tutto il suo mondo affettivo) sia legato al crimine 'ndranghetista e un padre non accetta che il figlio cada nel destino miserabile della faida per conquistare la patente di brutalità che finalmente ne faccia un uomo.
Siamo posti di fronte a due persone che si oppongono a una realtà – quella mafiosa – comunemente accettata e vissuta quale unica possibile: proprio come la famiglia in cui ognuno viene al mondo. Quando è il senso comune a condurre lo sguardo comincia l’annullamento dell’essere umano. Queste due opere però si cimentano nel rifiuto dell’immutabilità del proprio mondo. Uno scontro epico per ciò che rappresenta quanto minuto nella realtà degli interpreti: persone tradite. In entrambi i film è mostrata la necessità della ribellione ma anche l’inutilità del conflitto che ne segue perché diventi un valore di riscatto, in quanto quel conflitto familiare perpetua proprio ciò a cui intenderebbe ribellarsi.
E la ribellione torna rivoluzione, nel senso letterale di eterno ritorno, ciclo immutabile.
Questo è il teorema e paradosso.
Sebbene con finali differenti il corollario non può che essere la rottura risolutiva del legame familiare a qualunque costo, finanche il sacrificio estremo, pur di interrompere la linea del sangue. In A Chiara la separazione (nell’affidamento a un’altra famiglia) è sacrificio che avviene in modo salvifico perché l'Autorità si fa persona che conosce l'origine del male. In Anime nere un padre (che disprezza le maschere di morte del suo mondo, ma ne rimane radicato al contesto) quel legame familiare recide nello stesso sacrificio di cui è stato vittima: a qualunque costo, appunto.
Ma lo recide.
E anche qui la linea del sangue non sarà più.
Separazioni necessarie comunque.
Questi film ci raccontano innanzitutto la possibilità di un’altra vita presente o futura: il prezzo di certi legami è sempre fatale, perché fatale è la loro natura. A Chiara vi allude con la sua accettazione del cambiamento, possibile solo perché nella sua famiglia ha vissuto un amore capace di trascenderne il dramma. I legami sono salvi e lei li porterà con sé facendone la sua forza in un altrove ancora possibile. Anime nere – al contrario – si svolge interamente nel cono d’ombra di rapporti risolti soltanto da un destino già scritto, che qui ha la forza del mito. Non può esserci epilogo diverso dalla tragedia, del sacrificio purificatore nell’ebbrezza accecante dell’odio. A Chiara però ha il merito di essere superamento dell’epilogo shakespeariano, quando gli attori smascherando le deformità dell’anima ci lasciano uno sguardo che sa essere solo magnifica purezza.
N° 9 JOACHIM TRIER - LA PERSONA PEGGIORE DEL MONDO E THELMA: L’INSOSTENIBILE PULSIONE DELL’ESSERE.
La persona peggiore del mondo è un film sulla vita vissuta esclusivamente “da dentro”, ossia dall’epicentro delle proprie emozioni, sempre transitorio. Un racconto in cui ogni segmento della sceneggiatura incastona un preciso momento chiave nella narrazione. Questi momenti si possono identificare con chiarezza in julie, senza sbagliare, caratterizzando gli scarti emotivi che ne raccontano l’incapacità di fare due passi indietro per vedere le cose dalla distanza necessaria, qui sempre annullata dai sentimenti. Allora irrompono le infinite possibilità dell’esistere come modus vivendi, fino all’epilogo necessariamente risolutivo impone come un’unica via possibile, fuori da ogni scelta. Le emozioni si vivono, i sentimenti imparano. Il Cinema di J. Trier mi pare giochi con questi elementi, lasciando che si combinino in re(l)azioni spontanee che sfuggono a qualsiasi tentativo di controllo.
E’ il trasporto istintivo per la vita che vale la vita stessa, con il rischio della deriva quando si è orfani dell’educazione alla propria sensibilità: la difficoltà di convivere con la necessità di scegliere e l’impossibilità di farlo. Un’impossibilità che già si presentava (anche se diversamente declinata) in Thelma, per la quale ogni forma di autocontrollo e di scelta razionale sono così dolorosamente distruttive al di là del suo volere, per quanto ostinato. In J. Trier la volontà come progetto dell’agire è sempre sopraffatta, c’è sempre un impulso che svelando chi siamo annulla chi dovremmo essere. In Thelma negare il mondo emotivo è impossibile e il potere di far “sparire” qualcuno rappresenta la rimozione come unico strumento di difesa, perché solo l’annientamento altrui – quale oggetto del desiderio – può rendere tollerabile quello di se stessa, puntellandolo a protezione degli sconvolgimenti tellurici delle pulsioni. Thelma uscirà infine dal proprio conflitto (ereditato dagli algidi rapporti familiari) quando le emozioni agiranno con vita propria conducendola finalmente ai sentimenti che non ha potuto imparare e conquistando la forza di scegliere: liberarsi dal senso di colpa che brucia come l’indifferente autorità di un padre, come restituire la libertà a una madre avendo riconquistato la propria.
Nella Persona peggiore del mondo Julie sceglie Aksel, una relazione con il suo opposto: qualcuno che per età e storia personale quei due passi indietro li mantiene come metro dell'esistenza per seguirne il moto senza lasciarsene sopraffare (e finanche per cavalcarne l’onda). Tra la sue emozioni e le sue storie c’è la mano che disegna, che elabora e media la distanza tra il sentire e l’atto creativo. Anche il maschilismo e il femminismo altro non sono che vedere se stessi e il mondo solo “da dentro”, ossia entro i confini dell’identità. Ma Aksel quella visione elabora e razionalizza nell’atto della raffigurazione che esorcizza l’attitudine al conflitto, figlio della perdita del controllo e dell’incomunicabilità con l'altro da sé, creando una visione consapevole. Il battibecco in radio con l’intervistatrice “femminista” è lì a raccontarcelo: “se facessi un cartone animato su questa situazione potrei chiamarti puttana”; ed ecco l’indignazione al galoppo. Ma “puttana” è parodia dello scontro sessista, senza che ciò abbia una valenza politica su questo piano della realtà, perché qualunque atto creativo ne è salubre e vitale negazione onde disinnescarne scontri che non vogliamo e che in fondo non ci riguardano.
L’incontro di Julie con Eivind è una svolta necessaria: quando è che tradiamo il nostro partner? Non è forse il gioco funambolico di stare dentro i propri atti ma fuori da ciò che rappresentano? Vivere la realtà al livello puramente emozionale astraendosene dalle conseguenze? I due dicono di non voler mai oltrepassare un certo limite, ma sanno bene che lo hanno già fatto nel momento stesso in cui è iniziato il gioco. E anche noi lo sappiamo e sappiamo fin da subito come andrà a finire, perché sono loro ad avercelo detto. La mia idea è che non cerchino affatto di arrecare il minor danno possibile alle persone vicine come dicono, ma piuttosto di non arrecarlo a se stessi essendo soltanto le loro fragilità in gioco; nel poter solo navigare a vista nelle infinite possibilità che la vita promette, nell’inseguire (senza portarne il peso) un egoismo inevitabile quanto spietato proprio verso quelle persone. Perché appunto non si tratta di scelte ma di una vitalità compulsiva e per questo crudele ma anche innocente, ciò che ci porta ad amare il personaggio perdonandone sempre e comunque le oscillazioni leggendone gli sbandamenti dai quali le “persone peggiori” per prime non hanno rifugio (e forse noi ci sentiamo fortunati).
“Sei stata la relazione della mia vita”: è l’addio di Julie ad Aksel segnato dalla malattia. Fino alla fine Julie vive la sua vita come un susseguirsi di valori assoluti, totali. Ora, per la prima volta non può partecipare fino in fondo a quel dolore, perché l’unico valore assoluto evidentemente è se stessa dentro la propria vita. Nel bene e nel male. O semplicemente al di là di entrambi. Qui vive il momento più drammatico e può farlo perché tutta quella relazione si condensa in un presente estremo in ogni attimo, dove vivere “da dentro” è l’unica opzione possibile, ma con il privilegio – tutto suo – di esserne immune dalla crudeltà. Per qualunque scelta è comunque tardi e tutto è ricondotto nuovamente al semplice atto di vivere.
Caro Nicola, ti leggo sempre con sincero piacere e grande interesse. Trovo molto suggestivi questi tuoi raffronti. Proponi dei parallelismi che, inevitabilmente, ne fanno sorgere di nuovi. Il che significa che i tuoi pensieri stimolano la comparazione ("non scolastica"). Insomma, è sempre bello trovarsi di fronte a un testo capace di spostare la linea dell'orizzonte di qualche passo. Ora, entrando brevemente nel merito delle tue considerazioni, devo dire che il binomio Joker-Franz è quello che mi stuzzica maggiormente, probabilmente perché è l'unico che non mi è mai passato per la mente (mentre per le altre due coppie, in un modo o in un altro, in questi anni, avevo colto dei riferimenti e speso qualche riflessione). Ci tenevo a lasciare un feedback a questo tuo ottimo lavoro. Vorrei dire molte cose, in realtà, e sono certo che avremo modo di parlarne quando ci rivedremo, spero presto. Un abbraccio!
RispondiEliminaCiao Roberto, ti ringrazio davvero. Il tuo interesse è un dono che spero sempre di meritare e non può che aggiungere valore a queste righe pubblicate sempre con divertito impegno. Sì, speriamo di vederci presto perché ogni incontro con te è un raro piacere. Ti abbraccio anch'io.
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