22.5.23

Recensione: "Suzume" - Anime e Core, la grande passione per l'animazione giapponese - 17- di Enrico G.



Torna la rubrica sugli Anime del nostro Enrico!
L'abbiamo organizzata al volo perché domani e dopodomani, il 23 e il 24, torneranno al cinema (ma solo per quei due giorni) due film del maestro Makoto Shinkai, Il Giardino Delle Parole e Your Name.
E allora Enrico ha pensato di recensire l'ultimo film di Shinkai, Suzume (tra l'altro ancora presente in qualche sala) sia per farvi conoscere quest'ultima fatica che per avvertirvi di questa doppia occasione al cinema

vi lascio alla recensione!



Odiato, amato, finalmente al cinema è arrivato il nuovo film di Makoto Shinkai. Incredibile, per chi lo ricorda ancora come quel giovane sconosciuto, esordiente una ventina di anni fa con quel meraviglioso corto che si chiama “Lei e il suo gatto” (e vedendo Suzume, direi che certi concetti ti rimangono per tutta la vita). Oggi i suoi progetti ricevono la pompa di evento cinematografico anime dell’anno, che le critiche dei suoi innumerevoli detrattori non fanno che accrescere. E attenzione, non sono adattamenti di un manga di lunga pubblicazione, o tasselli di grandi proprietà intellettuali: sono solo i film di Makoto Shinkai, l’ennesima storia di un Giappone collettivamente ferito, di esseri umani dolci e sofferenti, della Natura divina, tremenda, imprevedibile, eppure splendida.

Spoiler sempre maggiori dopo ogni immagine.


Ultimamente è un piacere andare al cinema per l’animazione: c’è stato Suzume, l’anniversario di Akira, persino nello scialbo 2022 abbiamo ricevuto Belle in sala. Almeno si può contare sul Giappone, oltre che gli indipendenti e studi europei, perché l’animazione dei grandi numeri americana ormai è al collasso qualitativo - sperando per il sequel di Into the Spiderverse, e con le dovute eccezioni, il secondo Gatto con gli Stivali era fenomenale - oltre che totalmente computerizzata. Ecco, anche nel film di Hosoda c’erano una ragazzina “risvegliata” improvvisamente nel nostro mondo, e un trauma legato alla madre. Qui però le similitudini si fermano, perché i due autori hanno una poetica totalmente diversa. E lo ammetto, nonostante consideri Belle alla stregua di un capolavoro, con quella di Shinkai mi identifico immensamente di più. È una gioia ritrovare un regista che mi ha formato, e mai ho smesso di sentirlo mio, anche adesso che tutto il mondo lo guarda. Anzi, in merito a cose piacevoli, meno male che gli appassionati di anime non sono più una nicchia manco in Italia; meno male che gli anime ormai li seguono un po’ tutte le età come in Giappone, e al cinema possono essere mandati come film normali, e non eventi da tre giorni in orari impossibili.



La prima immagine del film ci riporta alla piccolezza dell’essere umano, schiacciato dalla volta di un cielo meraviglioso e irreale, che ci trascina nel sehnsucht, come avrebbero detto i romantici. Eppure, qualcos’altro è cambiato, ed è proprio il nostro: la giovane protagonista ha un aspetto più maturo del solito, non c’è nessun malinconico monologo interiore a introdurcela. E le canzoni? Diversamente dai due precedenti film, ce n’è solo una (bellissima) che ti fanno attendere fino ai titoli di coda, e un’altra effettivamente cantata dai Radwimps, che stavolta se ne stanno perlopiù in seconda linea a curare la strumentale. Anche se non mancano gli usi diegetici della musica, come durante la sezione di viaggio in macchina, dove veniamo deliziati, tra le altre cose, da Rouge no Dengon, canzone resa famosa (“è un vero classico!”), da Kiki consegne a domicilio, l’adorabile film targato Studio Ghibli. Nonostante i familiari agganci tematici ed emozionali (come da copione, c’è il “cameo” di un precedente lavoro, stavolta nella forma di una scatola con su scritto “Agartha”), ho avuto la forte sensazione che Makoto stesse cercando qualcosa di diverso dal solito. In merito si sono espressi, più rumorosi che mai, quelli che accusano Shinkai di ripetersi, di non osare abbastanza, ma in particolare di voler fare il Miyazaki del nuovo millennio senza esserne capace – abbiamo già parlato dell’omaggio a Kiki, ma Miyazaki è anche il nome della città dove Suzume vive - dimenticando, tra l’altro, che questo signore è ancora vivo e formalmente in attività, e non esiste mica solo lui tra i guru dell’animazione giapponese. Ma soprattutto, e tocca ripetersi ogni volta, le poetiche di questi due autori non potrebbero essere più distanti: Shinkai sta percorrendo una strada sua, e anzi "Suzume" potrebbe considerarsi la fine di un’ideale trilogia, che lo lega fortemente a Your Name e Weathering with you.



Il film, infatti, è un altro, lo potremmo scherzosamente definire, “disaster movie d’autore”. In realtà, come nei due precedenti, possiamo notare non tanto la spettacolarizzazione di disastri naturali, quanto una grande attenzione alle problematiche naturali e climatiche del nostro presente, nascosta dietro le finte spoglie del fantastico. Aleggia sempre un’atmosfera strana, in queste opere, un tono di forte realismo magico, una spruzzata di fiabesco, quella struttura da film d’avventura. Per molti sarà un difetto, io ammetto tranquillamente la mia parzialità e che adoro questa polisemia così particolare, ma non per questo mi basta, voglio capire e spiegare il perché.

Partiamo dalle ossa del racconto: la ragazza che si è svegliata, e ovviamente si chiama Suzume, è un’adolescente che vive in un sonnolento angolo del Giappone; non proprio un paesino come per Hodaka o Mitsuha, ma un porto del Kyushu, circondato dal verde, coi classici studenti in divisa che sciamano sulle loro biciclette. Un giorno incontra un misterioso ragazzo, Souta, che sta cercando delle rovine in zona. Lì c’è una porta per un mondo misterioso, una statua a forma di gatto, e da quelle stesse rovine, più tardi, si vede levare del fumo nero e rosso che non promette nulla di buono, ma solo Suzume sembra poterlo vedere... Dopo un’intensa scena d’azione, parte il titolo, e comincia la parte centrale, un road movie in tre atti. Poi il lungo finale dove i nodi vengono al pettine, con corse, lotte contro il destino, amore, salvataggi e tutte quelle belle cose. Ecco però che in questa storia, che andrebbe bene per qualsiasi bel film avventuroso, irrompe prepotente il realismo magico. Innanzitutto, come quasi tutti i film di Shinkai, “Suzume” è ambientato nel presente – a memoria, mi pare che solo in “Oltre le nuvole” e “Voices of a distant star” non succeda, per abbracciare certi aspetti fantascientifici. Dicevo, essendo ambientato nel presente, certe meccaniche sono riconoscibilissime: orientarsi col posizionamento satellitare, pagare con metodi tracciabili, navigare sui social, ma anche essere universitari squattrinati, con le auto usate e a malapena funzionanti, o avere una famiglia disfunzionale, con difficoltà a rapportarsi spesso ingigantite dalla tecnologia. E poi aspettare, perché nei film di Shinkai, come nella vita, si aspetta sempre. Il bus, l’asta della ferrovia. Per contemplare, per ricordare, perché smetta di piovere. Sono momenti che potrebbero essere tranquillamente tolti e la trama non cambierebbe di una virgola, ma per quel che mi riguarda non vi vorrei rinunciare per nulla al mondo. Specialmente le sequenze in cui i protagonisti pasteggiano, degustando il cibo più invitante che vi capiterà mai di vedere nella vostra vita, roba che nemmeno le sequenze della birra in Django Unchained o lo strudel di Bastardi senza gloria.



In un mondo simile, anche l’elemento magico viene gestito di conseguenza: cosa farebbero due adolescenti col potere di scambiarsi di corpo? Probabilmente risolvere i problemi nei panni dell’altro, come non potrebbero dai propri. Cosa farebbero dei ragazzini che devono mantenersi a Tokyo, se potessero controllare gli elementi atmosferici? Farne un lavoro e guadagnarci. Cosa farebbe una ragazza decisa e un po’ ribellina, se potesse lasciare una soffocante cittadina e imbarcarsi in un viaggio importante ed eccitante? Salirebbe a bordo senza troppi scrupoli, direi. Questa è Suzume, la nostra protagonista, ragazza direi più spigliata della media nella suddetta filmografia, dolce, sempre pronta ad aiutare gli altri. Dettaglio quest'ultimo, più volte dimostrato sottilmente nel corso del film, che crea un bel parallelo con la figura della madre, a suo tempo infermiera. Aiuta decisamente la bella voce espressiva delle attrici, sia quella originale che italiana, anche se per quanto mi riguarda stavolta il Giappone stravince: il resto del doppiaggio va dall'ok al "cosa diavolo stai facendo" (seriamente, chi ha scelto quella voce per Sadaijin?), probabilmente anche per colpa di un adattamento abbastanza piatto. Persino i sottotitoli ogni tanto sfoderano traduzioni un po' mumbo jumbo (il che è surreale visto che il distributore è Sony, una compagnia giapponese) ma almeno restituiscono l'espressività della versione originale, che consiglio decisamente.

Tornando alla nostra protagonista, forse non c'è in lei quell'investimento totale e personalissimo a cui sono abituato. Va detto che i precedenti film di questo regista avevano il lusso di storie di coppia, dove lei aiutava a delineare lui e viceversa. In "Suzume" invece, un passo decisamente ben accetto, la storia d'amore quasi non influenza la trama, rimane sotterranea per fare da catalizzatore solo nel finale. Incredibile visto che qui, diversamente dal solito, lei e Souta stanno assieme praticamente sempre, nulla li separa. Oddio, non proprio nulla... In effetti, Makoto fa la furbata, perché proprio sul più bello il ragazzo viene trasformato in una sedia per bambini. Proprio così, una sedia gialla, con tre gambe, che parla, si muove, partecipa senza vergogna alle scene d’azione di questo film, e scommetto ne diventerà il personaggio cult. Oltre a farci ridere tutti ovviamente, con un umorismo semplice ma non infantile, pulito e delizioso, a cui credo di dover ancora fare un adeguato tributo, forse il migliore che Shinkai abbia mai tirato fuori.



Il bello è proprio che "Suzume" parli di temi tanto delicati, come l'adolescenza o la Natura, senza prendersi eccessivamente sul serio. Di nuovo, un terzo di questa pellicola è dedicato ad una sedia per bambini parlante, che diamine. Ed è fantastico che questa scelta non sia, allo stesso tempo, asservita alla commedia: la condizione di Souta ha un risvolto lugubre, come lo è quel bagnasciuga abbandonato, con le ossa spiaggiate in stile Leviathan... Inoltre, mette a repentaglio il suo compito, cioè controllare ed eventualmente chiudere le porte per l'Altrove, il mondo degli spiriti, "dove tutto il tempo esiste contemporaneamente". È da lì che si scatena un vermone divino, dall'aspetto eccessivamente fallico (eravamo in sei al cinema, e tutti hanno ammesso di aver pensato male),portando terremoti sulla Terra. E sì, anche questa trama non è esente da incoerenze, tipo questo verme che per tutto il film è incorporeo, mentre a Tokyo diventa improvvisamente solido, tanto che ci si può camminare come sopra una strada. Ma d'altronde, questa mitologia dei Chiudi-porte ("Suzume no Tojimari" dovrebbe significare alla lontana “Suzume la Chiudi-porte”), ruolo che per forza di cose dovrà passare in parte a Suzume, non è nemmeno la cosa più interessante del film. È strumentale alla morale, un mezzo al discorso che si vuol fare, esattamente come nelle fiabe.

Il percorso iniziatico di Suzume ha qualcosa di estremamente profondo, e incarna quella delicata convivenza dell’uomo col mondo che lo circonda, costantemente messa alla prova, specie in quell’arcipelago orientale dove la natura è così capricciosa ed esigente. Un fardello, sulle spalle di giovani ragazzi e ragazze, come Souta e Suzume: l'individuo, in altri termini, rappresentante della collettività giapponese, che non riesce da solo, perché non ne avrebbe la forza, ma agisce da tramite per le forze divine che permangono la Terra. Una visione decisamente spirituale, dove i giovani, pur vivendo nel presente, sono gli essenziali eredi delle tradizioni del passato. Vestigia dimenticate o ritenute inutili, il kuchikamisake di Mitsuha, le Sacerdotesse Atmosferiche, e ora i Chiudi-porte, che vagano per quei luoghi dall'aria malinconica, abbandonati a loro stessi in giro per il Giappone, ma dove un tempo la gente sognava, rideva, amava, sperava, e la cui scomparsa sarebbe un silenzioso danno alle comunità. Parliamo d’opere molto più profonde di quanto appaiano, con l’uso dei simboli e del linguaggio animato che ricorda la cara vecchia Disney dei tempi andati. Ad esempio l’acqua, che rappresenta il passaggio: non è un caso che la prima porta vista da Suzume sia nel bel mezzo di uno specchio d’acqua, come lo era l’aldilà di Your Name, ma anche i luoghi attraversati dal cammino allegorico di Dante, nella sua Commedia. E questi sono gli elementi universali, comuni a tutta l’umanità, chissà quanto contano quelle simbologie prettamente nipponiche, in cui posso essere di aiuto solo limitato. Per motivi analoghi, non posso rispondere alla domanda su come si posiziona "Suzume" nella filmografia di Shinkai: questi sono film da lasciar sedimentare, che necessitano più di una visione, con sottotesti difficili da cogliere al primo impatto. Insomma, ho l’umiltà di ammettere che probabilmente il film l’ho compreso solo parzialmente, d’altronde sono passati quattro anni da Weathering with you e non sono ancora sicuro di aver compreso fino in fondo quello... Per "Suzume",se sono qui a parlarne, sia piuttosto una prova di quanto mi è piaciuto.



Anzi, dirò la cosa che mi è piaciuta più in assoluto, cioè l'aspetto on the road. Un adagio dice che non si viaggia per arrivare, si viaggia per viaggiare; perché in fondo, è quello che ti cambia. Il meglio di questo film sta infatti nelle persone che Suzume e la sedia della sua infanzia incontrano: la ragazza dei mandarini, la madre con i due piccoli al locale, il "losco playboy" Serizawa... Tutti personaggi semplici, teneri, delineati con due pennellate ma che ti sembra persino di conoscere, e quando li lasci indietro, di aver quasi smarrito un amico. Meno male che abbiamo sempre a fianco la nostra Suzume, una scopritrice, quel personaggio in cui il pubblico si può identificare, che deve renderci interessati e intrigati nella scoperta di questo mondo così strano e familiare allo stesso tempo. Ecco perché funziona che la sua storia d’amore sia quasi un elemento secondario: perché riesce a farsi amare da chiunque incontri, che le lascia, in modo simbolicamente appropriato, un qualcosa di sé (i vestiti della ragazza, il berretto della signora), oppure la aiuta, come Serizawa con la sua auto dall'ottima musica e capote scassata (una delle mie gag preferite del film). Almeno finché non tocca a lei e il suo innamorato l'ultima parte del cammino, per cui smette i suoi doni, in favore della uniforme con cui era partita, e gli stivali di Souta, come a dire che la faccenda devono finirla loro che l'hanno iniziata. Si potrebbe obiettare che la fine del suo viaggio dovesse arrivare a Tokyo, e che forse ad un certo puntosi fosse pensato di far finire "male" il film con Souta come chiave di volta. Potrei essere d'accordo, se non fosse troppo potente quel disperato anelito di vita del ragazzo, e troppo bello il modo in cui si è rinfrescato uno stilema immortale come il bacio che sconfigge la morte, dando ancora di più alla vicenda un tono fiabesco. Già, qui è lei che col Bacio del Vero Amore sveglia il suo “principe” (molto furbo farci credere all’inizio che lui fosse semplicemente un dormiglione), e trovo curioso come nel mondo occidentale questa cosa del bacio sia trattata ormai alla stregua di una vergogna del passato, mentre in oriente comprendono e rielaborano le nostre stesse fiabe con attualità e coerenza (vedi anche cosa ha fatto Belle con la Bella e la Bestia).

Questa risoluzione fa inoltre il paio col percorso di Daijin, il micetto parlante (l'altro, sicuro grande successo di questo film), colui che ha trasformato Souta in sedia. Era proprio Daijin la chiave di volta originale, la statua a forma di gatto che Suzume ha rimosso per errore. Questo piccoletto bianco, oltre ad essere adorabile, come solo possono essere, per i nipponici, i felini, ha tutte le caratteristiche di un grande trickster, quell'elemento imprevedibile di una storia simbolica. La prima volta che lo vedi ti fa pena, smunto com’è, poi parla e ti sorprende, l'attimo dopo riesce addirittura ad essere inquietante, quando imprigiona Souta nella sedia. (Sempre dando per scontato che non si abbia visto mezzo trailer, come me, prima di entrare in sala, perché scoprire "Suzume" da zero è immensamente più soddisfacente) E il resto del film è praticamente al suo inseguimento, adrenalinico, intrigante, ma anche dannatamente divertente. Immaginate un gatto parlante che va in giro e diventa un fenomeno del web, perché ovviamente di cos’altro potrebbero ossessionarsi i giapponesi, ed è inseguito da una sedia che si muove da sola... A sua volta con Suzume che va dietro ad entrambi, trascinata nell’avventura quasi senza nemmeno credere (e come darle torto) a quello che sta vivendo. Ah, quando Daijin va in giro sui mezzi se non sbaglio citano pure “I sospiri del mio cuore”, che è tipo il mio film animato preferito assieme a “Giù per il tubo”, potete immaginare la contentezza.



Insomma, questa povera ragazza, tramite le piattaforme social, segue la capricciosa divinità (ancora una volta, il divino che pervade la vita quotidiana, come nelle fiabe, più che nei fantasy) per mezzo Giappone, dal Kyushu, allo Shikoku, fino a Kobe e Tokyo. Ma Daijin, come tutti gli esseri fiabeschi sovrannaturali, non è buono né cattivo: è una guida imperscrutabile, che trova però la sua tenerezza nel rapporto con Suzume. O meglio, in quel rapporto che con lei non avrà mai, lei che lo aveva liberato, lei con cui avrebbe voluto giocare. “Suzume, non ho potuto essere il tuo gattino...”.Ottima anche se più marginale la presenza dell’altra chiave di volta, un gattone nero, che nel mondo degli spiriti è una specie di gigantesco Falkor felino anziché canino (mentre Daijin può diventare all'occasione un Totoro di folto pelo scuro). Anch’egli parecchio ambiguo, visto che per un attimo esaspera la frustrazione della zia di Suzume, arrivata da casa per riportare indietro la nipote.

Un grande "cast", diremmo per un live-action, che fa ingranare quella struttura familiare e sempre efficace del film di viaggio: incontri, scoperte, il fascino irripetibile dell'occasione, che dà origine alla mia scena preferita di tutto il film. Uno di quei momenti, presenti in ogni film di Shinkai, quello dove dici “va bene, hai vinto anche stavolta”. Una serata impegnativa, i bambini da controllare (con un piccolo aiuto), la corsa al luna park, l’ennesima giornata lontana da casa. Nel bar chiuso, Suzume e le proprietarie si mettono a cucinare in piena notte. Traspare tutto il calore di quelle due emerite sconosciute incontrate il giorno stesso, la deliziosa aura del cibo, che sembra sempre il più buono tu possa mai assaggiare, e poi quel voler coinvolgere Souta, quando Suzume gli si siede sopra e gli rivolge quel sorriso dolcissimo, incurante di essere vista come una stramba...

Questo film mi ha vinto con la gioia di raccontare, materia spesso dimostratasi rara da trovare, specialmente in sala. E trovarla rappresenta, ultimamente, una delle motivazioni più forti a spingermi al cinema, forse ancora di più della mitica “originalità” o “novità” di una storia, che a volte si sente sbandierata. Più di quella peculiare atmosfera che amo tanto e ho ritrovato, più della splendida animazione, stavolta molto centrata sui personaggi, con pochi scenari mozzafiato (anzi, mi sa che c’è addirittura un po’ di autoironia, con Suzume che si lamenta di essersi persa la vista sul Fuji dallo shinkansen). Molti registi sono capaci di azzeccare questi singoli elementi, ma pochi sanno concatenarli con la potenza che pervade “Suzume”, e darti la sensazione di aver visto davvero qualcosa di bello e importante.

“Sei così misteriosa Suzume. Ma perché ho la sensazione che tu stia facendo qualcosa di davvero importante?”

“Grazie Chika! Anch’io sono convinta di star facendo qualcosa di molto importante!”

“Evviva la modestia!”

Se il cinema davvero è magia, allora Makoto Shinkai è indubbiamente uno dei miei maghi preferiti.



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