30.12.24

Recensione: "The Hunt" - Su Netflix


Divertentissimo, dissacrante, politicamente scorrettissimo e, a suo modo, molto intelligente, The Hunt è probabilmente una delle meglio cose che potete trovare su Netflix, almeno riguardo il genere.
Un gruppo di Elite rapisce 12 persone e li porta in una zona rurale.
Per far cosa?
Per cacciarli e ucciderli.
Il motivo? lo scoprirete.
Film geniale, pieno di ritmo, personaggi riusciti, situazioni paradossali, e che racconta quasi meglio di un documentario questo strano mondo di oggi in cui moltissimi si fingono pieni di valori, tolleranti, ecologisti, ambientalisti, inclusivi, moralmente eccezionali per poi essere, invece, persone terribili capaci anche di uccidere e avere controvalori molto peggiori dei (finti) valori positivi posseduti.
Non manca anche una mordace critica ai complottisti che quasi mai hanno ragione, a volte ce l'hanno e altre volte hanno talmente tanto torto da far venir voglia che il complotto, poi, esista davvero.
Tante morti (ma il film è divertente) colte citazioni (Orwell, Esopo), una miriade di situazioni e personaggi simbolo dell'ipocrisia di cui ormai il mondo social di oggi trabocca.
E una grande protagonista, deliziosa e insopportabile.
E una Hilary Swank memorabile e bellissima.
Oh, per me questo è una perla.

PRESENTI SPOILER !!

Ok, questo è una bomba (e che ci sia dietro Lindelof poteva essere già un segnale).
The Hunt è un film dissacrante, intelligente, divertentissimo, politicamente molto scorretto e che sa sorprenderti più di una volta.
Ecco, ho scritto "politicamente" perchè è abbastanza ovvio come il film, in quel senso, racconti gli Stati Uniti, i suoi diversi credi e i suoi partiti. Ma, come sapete, essendo pochissimo esperto dell'argomento non mi lancio in nessuna analisi in tal senso, preferendo quelle più "antropologiche" e sociali.

Un gruppo di elite (avvocati, imprenditori etc...) rapisce 12 persone (per motivi che vedremo) e li porta in una zona rurale.
Per far cosa?
Per divertirsi a dargli la caccia e ucciderli.
E sì, il film come schema (il luogo aperto, le armi, la caccia, le classi sociali) ricorda un sacco Hunger Games ma con una storia e un mood completamente diversi.
Per quanto mi riguarda lo dico da subito, The Hunt ha tante qualità e difetti praticamente zero, ovviamente sempre restando nel suo genere, quello dell'intrattenimento, anche se qua molto più caustico e "intelligente" del normale.
Funziona da morire l'incipit, sia nell'aereo (nel quale avvertiamo questa "misteriosa" presenza della leader) sia i primi minuti nella foresta.


Ed è bellissimo come in 3-4 minuti muoiono uno dopo l'altro i personaggi che, ci avremmo scommesso, sarebbero stati i protagonisti assoluti (quando poi vedi Emma Roberts morire per prima ti gasi, capisci subito che è un film fuori dagli schemi).
Con la ragazza divisa a metà che poi muore nella stessa buca da cui era uscita capisci subito che anche il mood sarà quello di "divertiamoci insieme", mood che in film come questo è perfetto, non come in altri in cui rovina tutta l'impalcatura.
Il punto più forte di The Hunt, però, è il suo "messaggio" o tematica principale, ovvero il mordace racconto dell'ipocrisia galoppante nel mondo moderno.
Il film ti spiazza perchè ti mostra come i cattivi (i "ricchi") siano in realtà quelli dai buoni sentimenti e dai grandi valori.
Ma lo fa in una maniera così esagerata e parossistica che capisci subito quanto quella che viene raccontata è solo una grandissima ipocrisia, quella del "io ho dei grandissimi valori" ma poi, in realtà, sono un pezzo di merda che uccide gente innocente.
Così i ricchi (bianchi) tremano solo all'idea di dire o sentire "negro" ("non dire quella parola che inizia per "n" "), sono contro l'aborto, cercano di non dire "ragazzi", con la "i", perchè parola non inclusiva, sono salutisti (magnifica la scena del vecchio che pensa di aver ingerito il veleno che loro stesso avevano messo nelle bibite ma in realtà la moglie gli parlava della quantità di zucchero), vegani, ambientalisti, criticano gli altri anche solo per l'indossare un kimono ("è appropriazione culturale!") e addirittura preferiscono morire piuttosto che essere risparmiati in quanto donne (per la "parità dei diritti").
Il film è in questo straordinario, ogni battuta o ogni azione di questa elite che uccide in nome dei valori è perfetto specchio del mondo di oggi, specie social (e il film ha grandissimi legami coi social network, anzi, le vittime vengono scelte in base a quello che hanno detto o fatto nei social) dove tutti tendono a mostrarsi belli, virtuosi, inclusivi, tolleranti e illuminati ma in realtà la maggior parte delle persone resta meschina, cattiva, non empatica e sfrutta la propria posizione di potere per schiacciare gli altri.
E il film si basa totalmente su questa ipocrisia, su questa maschera, su questo discernere cosa è vero e cosa non lo è, e lo fa anche attraverso due citazioni.
Una è quella de "La fattoria degli Animali" di Orwell (che i ricchi probabilmente - e anche qui il film è geniale nel mostrare l'analfabetismo funzionale di tanti - travisano completamente, chiamando Palla di Neve, in senso dispregiativo, la loro "vittima" più importante - la protagonista del film - dimenticando che quel personaggio è semmai simbolo positivo di quello che vorrebbero essere loro) mentre l'altro è un ampliamento de "La lepre e la tartaruga" di Esopo, favola che qui si conclude col massacro, da parte della Lepre, di tutta la famiglia della Tartaruga, Tartaruga compresa.
Chi è quindi Palla di Neve nel film, loro o lei?
E chi la Lepre e chi la Tartaruga?
Su questo il film pone l'accento, su questo scambio delle parti per cui chi vince è chi perde, chi perde è chi vince, chi è buono è il cattivo, chi è il cattivo il buono.
Ed è talmente tutto surreale e non intellegibile che si arriva ad altri due paradossi.
Il primo è che, si viene poi a scoprire, questa "caccia" FORSE in realtà nemmeno esisteva ma proprio perchè i "complottisti" (generalizzando così possiamo definire il gruppo delle vittime) fossero certi della sua esistenza allora il gruppo d'elite, che per colpa di quel sospetto aveva avuto grandi svantaggi (si era creato un caso mediatico) decide di inventarsela davvero, di farla davvero.
Insomma, i complottisti credono in un complotto così grande e, con la loro stupidità, fanno un danno così enorme che quel complotto lo facciamo diventare reale.

E Palla di Neve, lei, era veramente la donna che cercavano?
E quella fattoria in Croazia è stata acquistata per la caccia o la Swank l'aveva presa per sè?
Il film ti pone mille quesiti ma non per regalare mistero o divertirsi con lo spettatore ma proprio per raccontare la ridicolaggine del mondo che viene mostrato, quello dove ogni frase, ogni azione, ogni battaglia, ogni valore di chicchessia (specie se gridato al mondo) può essere clamorosamente smentito, "debunkato", smascherato.


 Non esistono personaggi "puliti" nel film, sono tutte persone a loro modo ridicole.
Tra le scene da ricordare tutta quella nella "finta" stazione di servizio coi due anziani (le maschere a gas, il massacro, le battute sui negri, quella sul resto delle sigarette), quelle dei clandestini e dei militari croati (che ridere quel complottista razzista che alla fine aveva ragione sul fatto che l'altro fosse veramente un finto clandestino - a rimarcare quello più volte detto, il politicamente scorretto del film e questa doppia faccia di tutti i protagonisti), il cameo del grande Macon Blair (attore feticcio di Saulnier e ottimo anche come regista), il massacro "militare" che fa lei di tutti i ricchi nella baita, il flash back nel quale scopriamo le assurde motivazioni alla base di tutta la caccia e poi l'incredibile contro finale con la Swank.
(che è molto più bella adesso che da ragazza) attrice che è stato un piacere per me ritrovarmi avanti dopo tantissimi anni.
Questo scontro è gustosissimo, coreografato alla grande, comico nelle armi usate (vedi il mixer) o in alcune dinamiche (il tuffo per salvare il milionario champagne) e lunghissimo, tanto che mi ha ricordato quelli, indimenticabili, tra Peter e il Pollo. 


E quell' "ops" finale quando Crystal (la nostra protagonista) rivela alla Swank di non essere la persona giusta (ma quasi sicuramente lo era, è stata solo una battuta cattiva finale per far morire l'altra facendola credere di aver scazzato tutto) è davvero tanta roba.
A proposito, la protagonista è un altro dei plus del film.
Faccia da schiaffi, stronza, cinica, al tempo stesso insopportabile e deliziosa, vero manifesto di questo film così tanto double-face in ogni aspetto.
E quel finale quando lei entra nell'aereo vestita di tutto punto (impagabile la faccia della hostess) e si sbafa insieme a lei di caviale e champagne (in questo ribaltamento di ruoli sociale riuscitissimo) è la degna conclusione di un film che, per me, nel suo genere è una piccola perla.

7.5 / 8 - -

19.12.24

"Finalmente l'alba" / "Sette minuti dopo mezzanotte" - A luci accese (divagazioni illiminate) - 6 - di Nicola C.

Dopo quasi un anno (ma, al solito, colpa mia, i pezzi li avevo da mesi..) torna Nicola con il sesto appuntamento della sua rubrica "A luci accese", rubrica nella quale Nicola analizza più film, spesso per un filo conduttore comune (lo spiegherà lui nella presentazione).
Nicola è diventato da poco padre e capisco quanto "Sette minuti dopo mezzanotte" (film splendido) possa averlo colpito (l'altro non l'ho visto invece).
Comunque vi lascio a lui, prima alla presentazione e poi ai due film!

--------------------------------------------------------------------------------


Questa volta ci tengo a scrivere qualche riga d’introduzione, il che di solito non è nelle mie corde ma i film di cui parlerò meritano un’eccezione. Finalmente l’alba e Sette minuti dopo la mezzanotte sono per me entrambi meravigliosi, senza difetti. E visto che sono papà da qualche mese, questo è proprio il momento per due film così. Sono due film sulla “separazione” come quel momento che nell’immediato viviamo come perdita e che è tanto più prezioso perché ci rimarrà scolpito nell’anima e farà di noi quello che siamo. Per sempre.
E può anche essere la liberazione da quanto abbiamo tenuto sommerso troppo a lungo per paura o per vergogna; o che semplicemente non eravamo pronti a scoprire e in cui finalmente possiamo riconoscerci.
Separazione quindi che può diventare un più utile liberare per liberarci.
Perché la vita stessa è una separazione dal suo primo momento.
Ogni scelta è lasciar andare ciò che abbiamo escluso, ogni viaggio comincia da ciò che ci lasciamo alle spalle e – appunto – venire al mondo è la separazione più difficile e dolorosa eppure la più bella perché conduce a quel primo abbraccio altrimenti impossibile.
Ma da ogni esperienza “creativa” non ci si separa davvero mai più.
E’ il modo in cui lasciamo le nostre zone di conforto o le narrazioni che ci rassicurano che decide ciò che saremo. Perché poi il doverle lasciar andare non è che dipenda sempre da noi, anzi quasi mai. E a quel punto dobbiamo pur raccontarci qualcosa per sopportarlo. A volte le nostre bugie dicono di noi molto più delle nostre verità: l’inconfessabile che non sappiamo ancora mostrare agli altri ma innanzitutto a noi stessi. Allora se è vero che la realtà va scovata in ogni affabulazione è anche vero che queste ultime ne fanno parte indissolubilmente. E questi due splendidi film ci parlano proprio della verità quando irrompe nella sua crudezza a sciogliere l’enigma della sua maschera.
Siamo anche quella maschera e solo dopo averla riconosciuta possiamo separarcene.
Fatto questo siamo nuovamente pronti a tutto.

N° 12 FINALMENTE L’ALBA – LO SCANDALO DELLA PUREZZA


 

Finalmente l’alba è un film dai diversi piani di profondità e la sua ricchezza è nell’offrirli tutti con discrezione ed eleganza senza nulla togliere alla propria “generosità”. Alla fine un tale caleidoscopio di connessioni non può che portare ad altrettante interpretazioni personali. Per quanto mi riguarda ho visto soprattutto emergere una splendida epifania del femminile. Per arrivarci il film ci parla di ciò che rappresentò il Cinema nel dopoguerra: dall’incubo di un’umanità stretta intorno alle proprie macerie (e miserie) al sogno che quelle macerie vuole illuminate solo da una stella: la propria; perché la polvere sudicia della devastazione non ci riguardi più.
E il neorealismo tratteggiato in poche ma eloquenti scene gioca di contrasto
con la macchina “holliwoodiana” nell’epoca d’oro di Cinecittà.
Simmetria perfetta.
Saverio Costanzo conferma di conoscere benissimo gli strumenti che maneggia
ed è uno di quelli che non mi ha mai deluso.
La narrazione è subito intrisa della sottaciuta necessità di sopravvivere, la cui vitalità prende forma nelle spregiudicate ambizioni come negli espedienti che lastricano la salvezza: un matrimonio a buon partito o l’eldorado di quel Mondo oltre l’Oceano ancora una volta “Nuovo”. Quindi in una domenica come tante, in un pomeriggio restituito a un quotidiano nuovamente possibile del dopoguerra, nella sala d’un cinema il “Sacrificio” di una giovane che si immola per la vita di un bambino ebreo s’illumina in chiaroscuro, nelle ultime atrocità del nazismo in fuga dalla Liberazione; in controcampo il soldato americano uccide l'ufficiale tedesco pronto a giustiziare il bimbo. Nell’epilogo il soldato in campo lungo ascende la scalinata di Trinità dei Monti, evocando simbolicamente un domani finalmente migliore. Ma ci viene mostrato anche il giovane eroe che si congeda dall’orrore dopo l’ultimo gesto di coraggio, restituito alla vita e alle infinite possibilità di cui è sempre gravida la giovinezza. Soprattutto se tinta di stelle e strisce.
E questa metamorfosi, quella del giovane attore, va tenuta a mente.
Perché le trasformazioni degli altri spesso ci aiutano a capire le nostre.
Il merito è non cambiare quando il cambiamento obbedisce a regole altrui.


Mimosa (nome più simbolico non poteva esserci per un’epifania del femminile) al cinema con madre e sorella sarà comunque l’unica a emozionarsi e vivere sottopelle le vibrazioni di quell’orrore di guerra cogliendone la realtà: per lei reale è tutto quanto sia intensamente umano; a partire da quel momento ci è già chiara la sua alterità.
Dunque ritroveremo (non a caso, in un film dove tutto è simbolo e analogia) lo stesso interprete dell’eroe soldato come protagonista nel “faraonico” set di Cinecittà, dove Mimosa si trova quasi per caso a far da giovane comparsa in quell’angolo di firmamento d’oltreoceano. Lei che – a differenza di chiunque altro – quell’incanto vive con la purezza dello stupore e mai con la spregiudicatezza dell’ambizione.
“Comparsa speciale” le dicono e speciale lo è.
La terra promessa prende la forma di un Colossal, magnificando icone da rotocalco la cui emulazione significa dimenticare la miseria di ieri ed esorcizzare quella di domani.
Poi c’è il presente di lei: sogno a occhi aperti in una veglia che fagocita destini, speranze, vite. E innocenza. Ne sarà rapita, sedotta e tradita in un viaggio surreale, attraversando con candida grazia mondi assurdi come il linguaggio dei sogni, dove però reale è ogni ferita e ogni caduta su quella polvere di stelle sotto la cui coltre il suo è l’unico cuore a battere. Il silenzio della poesia è tempo sospeso, inganno involontario eppure l’unica emozione colta, offerta in dono a chi mente persino nel sogno. Finalmente l’alba è un film in cui scandalo è la purezza, rompendo da sola la quarta parete quale ancestrale confine tra la coscienza e le pulsioni dell’anima. Protagonisti disperatamente intenti a negare le proprie debolezze me che a quelle si immolano in un incosciente sacrificio, dove la cruda realtà non può che infrangere la finzione dorata.
Ed ecco che inseguendo la vita la si può perdere su una spiaggia ai margini della dolce vita o in un matrimonio fortunato solo nello sguardo altrui.


Fin quando il volto della dea perde, con gli strati della maschera,
la sua insolente divinità
svelando il segreto di una fragilità meravigliosamente umana.

Trascorsa la notte, il viaggio di Mimosa scandisce
“in direzione ostinata e contraria”
la stessa scalinata da cui cominciò
quella domenica pomeriggio
restituendone il simbolo alla realtà.
Rivoluzione che riconduce al principio, come ogni rivoluzione.
E il principio già non è più il pudore di umile ragazza del popolo
ma l’inviolabile natura del femminile.
Senza deleghe. Al di là delle parole. Delle rivendicazioni.
Fiera al suo fianco.


N° 13 SETTE MINUTI DOPO LA MEZZANOTTE – L’AMORE CHE MOSTRO!


E’ stato un interessante scambio di battute con Giuseppe (nei commenti alla sua recensione) a farmi capire fino in fondo quanto sia davvero speciale questo film e a convincermi che valesse la pena parlarne qui più compiutamente.
Questo è un film che ci fa mettere a fuoco la differenza tra ciò che sentiamo e ciò che mostriamo, tra ciò che proviamo davvero e ciò che pensiamo di dover provare. Ed è indubitabile che siano piani profondamente diversi dell’esistenza la cui opposizione qui è dolorosa, rivelando cose di noi che normalmente (ci) teniamo nascoste.
E Sbagliamo.
Perché questa contraddizione è dovuta al fatto che spesso il preteso paradosso di insegnare le emozioni ne esige solo la manipolazione, fino magari a negarle. Ma sarebbe meglio piuttosto farle nostre, che solo scoprendole possiamo crescere.
Di ciò che sentiamo non potremmo mai sentirci in colpa, semplicemente perché colpa non è. Banalmente perché la sfera emotiva è per sua natura esente da qualunque giudizio morale e poco importa se ci ostiniamo a sottoporla alla sua lente.
Nel film di tutto questo ci parla un mondo adulto che sa di non poter punire ciò che è privo di volontà. Di questo ci parlano i racconti del “mostro”: lezioni per una catarsi laica dal senso di colpa che vogliono liberarci dalla cecità degli imperativi morali cui obbedisce la coscienza tarpata dal giudizio. Racconti che alludono al linguaggio del mito (qui edulcorato alla forma infantile della fiaba) e quindi alle “radici” dell’esperienza umana che solo in se stessa può cercare le risposte. Ma per quelle occorre sempre uno sguardo nuovo e Connor – anche se ancora deve esserne consapevole – già lo possiede grazie proprio a quella madre, nel momento a partire dal quale niente più sarà come prima.


La radice di “Monstrum” (dal latino, prodigio) è etimologicamente in monere (come ammonire) da cui “monstrare” (mostrare una volontà trascendente che è infine monito e insegnamento):indicare la via corretta prendendo l’aspetto di un essere sovrannaturale e quindi divino,
ma della divinità declinata nella cultura classica
che rappresenta l’umano anche e soprattutto nella sua oscenità.
L’albero che estrae le sue radici dal terreno, che diventano gambe per muovere verso il bambino, è profondamente simbolico. La parte ”radicata”, sepolta e perciò invisibile agli altri (ma che “alimenta” ciò che gli altri vedono e che per loro siamo) viene dissotterrata, emerge allo scoperto e diventa finalmente cammino verso di sé a “rivelare” i segreti di quella profondità
in cui è custodita l’origine di ogni salvezza.
Il mostro è un prodotto della fantasia del bambino:
è Connor che impara a guardarsi e a “venirsi incontro”.
Così con quelle storie ora potrà ritrovarsi raccontandosi la necessità degli esseri umani di mentire a se stessi (il principe che vuol credere che l’amata sia morta per mano della strega negando a se stesso il proprio gesto, così come il popolo che vuol crederlo innocente per ritrovare il suo amato sovrano); ma anche che in una sembianza orribile - alter ego della propria - non è detto si celi una colpa (la strega infatti è innocente) con chiaro riferimento al proprio desiderio vissuto come colpa ma che colpa non è.
Per poi comprendere (con la storia dell’uomo invisibile) che peggio di risultare invisibili allo sguardo altrui è esserlo a sé stessi, accecati dallo stesso odio che ci viene rivolto; e che poi, una volta proiettati nella realtà, gli altri quell’odio sapranno assolvere quando ne conoscono il dolore, che si può essere al mondo per cose diverse dal giudicare e dal punire (la nonna non lo rimprovera nonostante abbia devastato le sue cose).
E solo recuperando lo sguardo su di sé Connor potrà affrontare infine l’incubo della Creatura (in quell’ultima sembianza, la malattia) che l’obbliga ad afferrare sua madre sospesa nel vuoto in uno sforzo insostenibile, solo per capire che lasciar andare ciò che è impossibile trattenere è un gesto d’amore necessario anche se può apparire mostruoso.
Adesso lo sa.


Il cerchio quindi è chiuso: sta a noi assolvere l’innocenza quando gli altari si trasformano in patiboli. La morale applicata ai sentimenti è una rassicurante menzogna - con cui assecondiamo aspettative che ci schiacciano - prima illusoria e che poi al dunque può essere profondamente ingiusta e devastante. Il finale è straordinario e commuovente perché rivela che a volte la “salvezza” è proprio in ciò che rifiutiamo o che il mondo ci impone di rifiutare;
che qualunque edificazione morale calata dall’alto ci allontana dal nostro diritto di esserci,
che è molto più di esistere soltanto.
Così come amiamo non perché sia giusto ma solamente perché ne abbiamo bisogno,
come per ogni nutrimento (la voglia di dare e l’istinto di avere, cantava il buon De André).Amare ed essere amati fino all’ultimo istante è il massimo che può esser concesso
e infine lasciar andare sarà l’unico gesto in nostro potere.
Poi vivremo l’illusione del ricordo, ma solo così avremo imparato ad amare davvero.
E potremo farlo ancora.



10.12.24

Esplorando il cinema attraverso il videogioco: trasposizione, intersezione, decostruzione. - di Matteo Scapin -


Siete appassionati di cinema e videogiochi?
Allora non potete perdere questo grande pezzo di Matteo Scapin.
Matteo è un grande amico, nonchè il grafico che, tra le altre cose, ha disegnato il logo del blog e tutti i disegni delle "mitiche" t-shirt che abbiamo venduto ai tempi del Guardaroba.
Ormai è sotto gli occhi di tutti quanto i videogame, a parte l'interattività, non abbiano niente da invidiare al grande cinema, anzi, ne siano talvolta una massima espressione.
Matteo - attraverso tantissimi esempi - prima analizza in generale questo "scambio", ormai sempre più accentuato, tra cinema e gaming, poi si sofferma in maniera più approfondita su 4 titoli, Immortality, Alan Wake 2, Lorelei and the laser eyes e Death Stranding.
Non perdetevelo!

Introduzione

È manifestazione diretta del mezzo artistico quella di instaurare un dialogo con gli altri media creativi, spesso sfumando i confini tra le parti e talvolta dando origine a nuove forme di espressione. 

Oggetto di questa analisi sono videogiochi e cinema e, se il secondo è indiscussamente considerato arte, per i primi il dibattito non è ancora chiuso, sia per via della loro definizione ludica sia per un loro inquadramento come intrattenimento per un pubblico che - alla stregua del fumetto, pregiudizievolmente - non è ritenuto alla ricerca di un’esperienza artistica. Eppure è proprio la natura interattiva ed emergente del videogame a renderlo un mezzo di comunicazione unico, distintivo ed estremamente potente nella sua capacità di coinvolgere il fruitore (non più solo spettatore ma partecipante attivo).


Negli ultimi decenni cinema e videogiochi hanno vissuto un rapporto di scambio continuo e crescente, dapprincipio in direzione univoca dal primo verso i secondi e successivamente sempre più intersecato, un continuo confronto tecnico e narrativo che ha mutato e arricchito entrambi. 

Dalla trasposizione videoludica di opere cinematografiche alla trasposizione cinematografica di opere videoludiche sono emersi alcuni dei più rilevanti lavori dei rispettivi media, nonostante la traiettoria sia stata per entrambi molto accidentata, soprattutto nelle fasi iniziali. A partire dal videogame E.T. the Extra-Terrestrial del 1982 - considerato uno dei peggiori videogiochi della storia nonchè uno dei primi su licenza filmica - per arrivare a capolavori moderni come Alien: Isolation, The Chronicles of Riddick: Escape from Butcher Bay e Star Wars: Knights of the Old Republic, troviamo un percorso quasi parallelo che va dal film Super Mario Bros (1993) - uno scult a tutti gli effetti - e dagli innumerevoli tentativi fallimentari che hanno reso famigerato Uwe Boll (House of the Dead, Alone in the Dark, Postal, Far Cry, ecc.) a lavori notevoli come le recenti serie Arcane, The Last of Us, Fallout, Cyberpunk: Edgerunners; a queste si aggiungono poi film dove l’elemento videoludico diventa un dispositivo narrativo, opere che analizzano il medium e ne inglobano dinamiche e storie: War Games, TRON, eXistenZ, Run Lola Run, Wreck It Ralph, Ready Player One, Hardcore Henry e molti altri lavori di gran rilievo.


E.T. the Extra-Terrestrial


A livello tecnico la convergenza e lo scambio tra i due media sono sempre stati particolarmente vivaci. I videogiochi hanno abbracciato il linguaggio cinematografico adottando tecniche narrative e strumenti espressivi propri del grande schermo per costruire esperienze emotive e coinvolgenti. Tecnologie come il face scanning e il motion capture permettono di riprodurre in maniera iper-realistica le fattezze e le espressioni degli attori, avvicinando l’estetica e la profondità dei personaggi digitali a quella delle controparti reali. Titoli come The Last of Us, Red Dead Redemption 2, Hellblade 2 non si limitano a raccontare una storia: sono dei veri e propri film interattivi in cui il giocatore è chiamato non solo a interpretare ma anche a vivere in prima persona le emozioni dei personaggi rappresentati.

Hellblade 2: a sinistra il modello 3D ottenuto con il face-scanning di Melina Juergens, a destra


D’altro canto è rilevante sottolineare una recente inversione di tendenza che vede il cinema utilizzare software (es.: Blender, software open source di modellazione 3D utilizzato per la realizzazione di Flow) e tecnologie nate per i videogiochi (es.: Unreal Engine, motore grafico utilizzato nel cinema per la creazione di mondi digitali fotorealistici e set virtuali, come nel caso del Volume inaugurato con The Mandalorian). In questa sovrapposizione tecnica e visiva, i due media si influenzano e si arricchiscono a vicenda, al punto da sembrare, a tratti, interscambiabili.

Le pareti di schermi LED del Volume di ILM abbinate all’Unreal Engine 5 durante le riprese di The Mandalorian


Tuttavia, come anticipato in apertura, i videogiochi possiedono un elemento distintivo: l’interattività. Mentre il cinema tradizionale è un’esperienza lineare che lo spettatore vive passivamente, il videogioco offre una dimensione esperienziale che coinvolge il giocatore in modo diretto e immersivo. Questo tipo di fruizione è destinata a cambiare ed evolversi e già oggi, grazie anche alla diffusione delle piattaforme di streaming e dei visori di realtà virtuale (VR) e mista (MR), il cinema ha tentato di sperimentare con l’interattività. Tra gli esempi troviamo Black Mirror: Bandersnatch, che ha introdotto un approccio narrativo in cui il pubblico può influenzare gli eventi attraverso scelte multiple durante lo streaming, e le esperienze in realtà virtuale come Human Within e Submerged, dove lo spettatore viene proiettato in prima persona all’interno dell’opera e in cui l’interazione con l’ambiente e l’esplorazione libera dello spazio virtuale circostante diventano parte integrante del racconto, incarnando un passaggio verso una nuova forma espressiva in cui i confini tra visione e azione si dissolvono.

Human Within su Meta Quest


All’interno di questo contesto ibrido e mutevole emerge un nuovo tipo di videogioco: quello che, oltre a utilizzare il linguaggio filmico, riflette attivamente sul cinema come forma d’arte e mezzo espressivo. Questo articolo esplorerà quattro esempi recenti – Immortality, Alan Wake 2, Lorelei and The Laser Eyes e Death Stranding – che vanno oltre i confini del medium videoludico per intessere un dialogo profondo con l’arte del cinema: questi titoli non si limitano a ispirarsi a quest’ultimo, ma lo analizzano, lo decostruiscono e lo omaggiano, creando un intreccio affascinante di narrazione, linguaggio visivo e interattività che pone al centro l’ispirazione artistica e le sue sfumature più complesse e oscure.

Immortality - Il cinema tra ispirazione e possessione

Immortality, diretto dal britannico Sam Barlow, è un gioco in FMV (Full Motion Video, ovvero composto da filmati interamente pre-registrati) che esplora il mistero di un’attrice scomparsa, Marissa Marcel, attraverso un archivio di filmati provenienti da tre film fittizi dove la stessa era protagonista. Il gameplay al cuore di Immortality immerge i giocatori in un found-footage che ricorda la ricerca archivistica, permettendo loro di recuperare nuove clip video utilizzando una moviola per scandagliare i documenti e, selezionando un qualsiasi elemento presente nel fotogramma, ottenere un nuovo frammento di filmato attraverso la tecnica del match-cut sul soggetto scelto. Il cinema su Immortality non è solo una scelta narrativa ma un dispositivo estetico e interattivo



I tre film che il giocatore si trova a svelare - ricostruibili tramite sequenze degli stessi, provini, interviste e filmati di backstage -  rappresentano ognuno un’era distinta del cinema: il gotico anni ‘60, il noir anni '70 e il thriller psicologico anni '90. Ogni epoca non è solo uno sfondo ma riflette atteggiamenti in evoluzione verso l’arte, la fama e il ruolo delle donne nello spettacolo. Immergendo i giocatori in questi cambiamenti stilistici, Immortality suggerisce che il cinema è uno specchio culturale, che cattura ambizioni, tabù e visioni mutevoli di ogni generazione.



C’è un ulteriore livello interpretativo e narrativo che Immortality trasmette attraverso delle oscure sequenze nascoste su cui il giocatore si imbatte durante l’investigazione: un effetto sorprendente che spiazza e vira le tonalità del racconto verso tinte decisamente horror. In questa lettura più esoterica il cinema funge da veicolo per una forza ultraterrena per incarnare, attraverso storie ed emozioni umane, l’ambizione e l’ossessione che impregnano l’arte: viene messa in discussione la nozione romantica dell’ispirazione, rivelando come essa possa tanto elevare quanto consumare l’artista e suggerendo come il cinema stesso possa diventare una ricerca che distorce e sfuma i confini tra creazione e possessione.



Alan Wake 2 - Il cinema come deformazione della realtà

Alan Wake 2, gioco finlandese sviluppato da Remedy e diretto da Sam Lake, è un survival horror che cala il giocatore nei panni di due protagonisti: Alan Wake è un’autore di romanzi noir intrappolato nella sua mente e capace di deformare la realtà tramite la scrittura; Saga Anderson è un’agente dell’FBI che indaga su una serie di omicidi apparentemente correlati a un culto legato allo scrittore.

Alan Wake 2 è fortemente ispirato dalle opere di David Lynch (Twin Peaks in particolare) e ai classici crime con serial killer (Se7en e True Detective su tutti), e il linguaggio cinematografico è integrato sia nella storia che nel gameplay: Il gioco utilizza scene in live-action che si fondono in modo omogeneo con le ambientazioni 3D durante l’esplorazione, per intensificare la suspense e amalgamare l’esperienza del guardare e del partecipare ad una storia horror.



Il cinema in Alan Wake 2 diventa esso stesso un protagonista attraverso il personaggio di Thomas Zane, un regista cinematografico che rappresenta una sorta di alter ego di Alan Wake: una dualità che suggerisce la potenza di cinema e letteratura nel creare impressioni durature in grado di influenzare e deformare la percezione del mondo reale; un commento meta-narrativo sul cinema come forma d’arte che trascende il suo momento culturale immediato, sopravvivendo nella memoria, persistendo e influenzando la realtà.



A rafforzare ancora di più la crasi tra cinema e videogiochi, Alan Wake 2 include anche un cortometraggio completo proiettato in un teatro virtuale che il giocatore esplora durante uno dei capitoli, portando l’atto del guardare il cinema all’interno dello spazio videoludico e invitando l’utente a riflettere sulla natura del controllo narrativo nei videogiochi rispetto ai film (è il giocatore che decide se soffermarsi per i 20 minuti di durata del corto o se proseguire liberamente il livello).



Lorelei and The Laser Eyes - Il cinema come identità e memoria


Lorelei and The Laser Eyes è un puzzle game indie sviluppato dallo studio svedese Simogo e diretto dal fondatore Simon Flesser, che omaggia videogiochi classici come Alone in the Dark e Resident Evil fondendone meccaniche e stile a puzzle game di esplorazione come Myst e The Witness. Il giocatore assume i panni di una misteriosa ragazza invitata da un ancor più misterioso signore (un regista italiano evocativamente chiamato Renzo Nero) a prendere parte ad un progetto artistico strutturato negli spazi di un’antico hotel tedesco. Questo titolo prende ispirazione dal cinema d’avanguardia noir e surrealista, proponendo la risoluzione di un mistero che combina enigmi, immagini inquietanti e una retrospettiva sul medium videoludico, sull’arte e sull’intrattenimento.



Le influenze cinematografiche sono evidenti innanzitutto nella sua struttura onirica con una narrazione frammentata - da ricomporre, è l’enigma che racchiude tutti gli altri puzzle -, nel bianco e nero atmosferico e nelle inquadrature che creano una sensazione di ambiguità e disorientamento. L’ispirazione più esplicita è il film francese del 1961 L'Année dernière à Marienbad (L'anno scorso a Marienbad -  l’hotel dove è ambientato il gioco si chiama Letztes Jahr, tedesco di “anno scorso”) di Alain Resnais, famoso per la sua narrazione labirintica e ripetitiva (il “labirinto” è uno dei tanti motivi ricorrenti nel gioco) e l’esplorazione sconnessa della memoria e dell’identità. La struttura astratta e circolare del gioco rispecchia la natura del film e come quest’ultimo sfuma abilmente presente e passato, realtà e illusione, spingendo i giocatori a riflettere criticamente su come i ricordi siano manipolabili e la memoria fallace.



Il cinema nel gioco è presente anche come paesaggio onirico - con sequenze espositive rappresentate come scene di film muti - e come sorta di collezionabile durante l’esplorazione - in cui il giocatore raccoglie pagine di sceneggiatura di un lungometraggio fittizio che si interseca con il passato reale dei protagonisti -, fondendosi in un racconto in cui gli eventi sono fluidi, i significati elusivi e i ricordi inaffidabili. Questo punto di vista sul cinema suggerisce che l’arte non rappresenta semplicemente la realtà: la riflette (lo “specchio”, altro leitmotif del videogioco) e la distorce, catturando la natura sfuggente e soggettiva dell’esperienza umana.



Death Stranding - Il cinema e la creazione di connessioni


Diretto dal giapponese Hideo Kojima, Death Stranding è definito dal suo autore come un nuovo genere, uno strand-game, ovvero un videogioco incentrato sulle connessioni umane e sulla necessità di collaborare per costruire un futuro: a livello di gameplay si presenta come un ibrido di action e open-world dove la componente di attraversamento del mondo di gioco è il cuore dell’esperienza, impersonando una sorta di fattorino in un mondo post-apocalittico da ricostruire, coadiuvato da un sistema multiplayer asincrono che vede i giocatori collaborare per rendere la traversata dell’ostica ambientazione più agevole.



Death Stranding integra il cinema in maniera diretta, con la partecipazione di attori di alto profilo (Norman Reedus, Mads Mikkelsen, Léa Seydoux, Margaret Qualley, Lindsay Wagner scannerizzati in 3D fino all’ultimo poro e interpretati da loro stessi in motion-capture) e scene d’intermezzo lunghe e ricche di dialoghi, creando un ritmo distintivo e un’esperienza meditativa che - anche qui - pone il giocatore sia nei panni dello spettatore che del partecipante.



Death Stranding omaggia e feticizza il cinema attraverso l’inclusione di registi come Guillermo del Toro e Nicolas Winding Refn (nel sequel, in sviluppo, si aggiungeranno George Miller e Fatih Akin), che appaiono come personaggi nel gioco. L’inserimento di queste figure evidenzia il ruolo dei registi come architetti di mondi che connettono emotivamente le persone, riflettendo il ruolo di Kojima stesso come “regista” nel medium videoludico. Questi autori portano non solo la loro immagine ma anche l’essenza dei loro stili, fondendo horror, surrealismo e temi esistenziali nell’atmosfera cupa ma pregna di speranza del gioco. 

Il gioco ruota attorno al tema del collegamento di spazi isolati, un tema che si allinea al ruolo del cinema nel connettere il pubblico a prospettive, emozioni e mondi diversi. La venerazione di Kojima per il cinema e i suoi autori diventa una meditazione sul potere dei film di unire le persone tramite viaggi narrativi condivisi, suggerendo che l’arte, in qualunque forma, serva come un “cordone” - uno “strand” - per connettere l’umanità attraverso le divisioni.



Conclusione

Questi quattro titoli dimostrano come il rapporto tra cinema e videogiochi possa superare la somma delle loro singole parti, offrendo esperienze che esplorano e arricchiscono entrambi i media. Immortality, Alan Wake 2, Lorelei and the Laser Eyes e Death Stranding portano avanti una riflessione profonda sul cinema come linguaggio, arte e strumento di esplorazione umana, e invitano il giocatore a entrare in una conversazione sull’identità, la memoria, il potere evocativo del racconto e la sua influenza sulla percezione.

Guardando al futuro e speculando sull’impatto della tecnologia, il legame tra cinema e videogiochi sembra destinato a evolversi in direzioni ancora più immersive e interattive. Già oggi la realtà virtuale permette esperienze più coinvolgenti e, con la crescente integrazione dell'intelligenza artificiale generativa, entrambi i media potranno beneficiare di narrazioni adattive che rispondono in tempo reale allo spettatore/giocatore, come una sorta di collaboratore artistico che contribuisce a creare ambientazioni e personaggi che si modificano dinamicamente sulla base delle interazioni.

In questo panorama di tecnologie convergenti, cinema e videogiochi non sono più solo media separati che si influenzano a vicenda, ma fioriscono su un nuovo terreno comune dove l’esperienza diventa liquida. Il futuro promette una fusione sempre più profonda, in cui il pubblico potrà non solo osservare o giocare, ma vivere storie che si costruiscono e prendono forma intorno a sè, unendo il potere evocativo del cinema con la libertà e l’immersione proprie del videogioco.