2.9.19

Festival del Cinema di Venezia 2019 - giorno 4 - 2 settembre (il giorno di Joker)


JOKER

di Todd Phillips


CONCORSO

Filippo Tassinari

Arthur Fleck vorrebbe fare lo stand-up comedian e invece si traveste da clown per lavorare: vorrebbe far ridere la gente, lui che è costretto a ridere da una patologia. Inoltre la vita a Gotham City è sempre più dura tra miseria, sporcizia, soprusi continui e una madre da accudire.
Il film più atteso di Venezia e forse dell'anno è una sorpresa totale: doveva essere il film su uno dei villain più amati della storia del cinema/fumetto e invece è un convincentissimo film sulla parabola discendente di una società che si va a schiantare. Sul punto di rottura di un uomo, un ultimo, un emarginato. L'Oscar per la migliore interpretazione maschile del prossimo anno potrebbe già essere assegnata a Phoenix. 


Voto: 8

Riccardo Simoncini

Non bisogna amare i cinecomic per apprezzare questo film. Perché troppo spesso le etichette che si attribuiscono sono figlie di una visione semplicistica e generalizzata che incasella tutto senza andare oltre. E per lo stesso principio si potrebbe relegare semplicemente ed erroneamente la figura del regista Todd Philips ai film come “Una notte da leoni”. Invece no, perché quello stesso regista arriva a dirigere un’opera monumentale come questo film. Joker è infatti questo: va oltre ogni tipo di stereotipo. Certo: c'è l'antagonista di Batman. Certo: in partenza magari ci può essere (solo come ispirazione) un fumetto. Ma questo Joker, diretto da Todd Philips, in questa forma non è più un fumetto, è cinema, all'ennesima potenza. Basti pensare che il film sarà vietato ai minori, mentre di solito questo rappresenta il pubblico più ampio degli stessi cinecomic. Non ci sono, infatti,  supereroi e neanche supercattivi, al massimo si può parlare di antieroi. O meglio si racconta del processo, lento ed intenso, per diventarlo. Un viaggio verso l'Inferno, verso la formula chimica della pozione per dominare il male. Ci hanno sempre raccontato come diventare grandi principi e principesse, cavalieri e guerrieri in lotta continua contro il male. Ma quel Male com'è diventato tale? Cosa conduce le persone alla violenza? Troppo spesso l'antagonista è rimasto relegato ad una visione riduttiva e stereotipata, per cui egli nasce cattivo. Il Male, cioè, è sempre apparso come una bestia immutabile e sempre uguale a se stessa, facilmente riconoscibile e per questo facilmente affrontabile. La solita visione binaria che riduce tutto a bianco e nero. A bene e male. Ed è in questa scissione che viviamo la nostra tranquillità. Ci sentiamo diversi, distinti e superiori rispetto a quegli antagonisti rappresentati come macchiette. Come se fossimo in una posizione privilegiata. Quando, però, ci viene mostrato che chiunque, potenzialmente, in un particolare contesto, può trasformarsi in quello stesso antagonista, il nostro castello di carte crolla. E così nasce Joker. O meglio: Arthur Fleck (interpretato da un magistrale Joaquin Phoenix) che da attore comico fallito si trasformerà nel criminale più conosciuto di Gotham City. Una lenta metamorfosi durante la quale dovrà progettare e costruire il suo personaggio. Arthur è un "fiore bellissimo nato sull'asfalto", come lo definisce il regista Todd Philips.  Il sogno di Arthur di far ridere, di essere un comico ed essere per questo apprezzato, un'aspirazione che si potrebbe definire comune, semplice ed ordinaria, si deve infatti scontrare con il disagio e la complessità di una metropoli, tanto grande e frenetica da opporsi a qualsiasi tentativo di emergere o farsi notare. In quel mondo ci si aspetta dall’uomo una felicità eterna, che nasconda il dolore e mostri sempre il sorriso. La madre stessa di Arthur ha addirittura un’aspettativa di felicità così elevata nei confronti del figlio da chiamarlo Happy, ma lui non è davvero “happy” e anzi ridere ed essere felice diventeranno la sua vera ossessione, la sua malattia, tanto che inizia a sviluppare una risata patologica, incontrollata. La risata che ricerca come comico nelle persone è quella di gioia e di divertimento, ma attraverso quella patologica, la reazione che riceve è di sola paura e sdegno. Durante gli spettacoli comici di Arthur la maggior parte del pubblico non ride con lui, ma ride di lui (sempre che rida). La risata rappresenta un aspetto così istintivo, viscerale e spontaneo che potrebbe apparire banale, ma che, quando diventa imposto, forzato e condizionato, scavalca appunto la consuetudine e diventa angoscia ed ossessione. Nel contesto in cui Arthur vive, la sua vita non vale nulla; quel mondo infatti lo disprezza, lo deride, lo picchia ed impone su di lui le sue regole di sopravvivenza, per cui pure la violenza diventa legittima. Quel mondo non capisce la sua malattia e anzi si comporta tutto come se Arthur fosse completamente sano. E finisce così per alimentare ancor di più la sua condizione patologica. Perché invece che aiutarlo, la società lo esclude, lo getta a terra, come fosse un rifiuto. Così per ricevere attenzione e considerazione in quella stessa città, non ci si può più adeguare ai suoi ritmi e rispettare ossequiosamente le sue regole quotidiane, ma bisogna al contrario infragerle, distruggerle e porsi al di sopra di quello stesso sistema in cui non valevi niente. Arthur voleva solo fare ridere il pubblico, avere la sua attenzione o almeno essere trattato con dignità, e per perseguire questo desiderio così semplice ha sempre scelto la via segnata, morale, quella che percorrono tutti. Ciò che ha ricevuto in cambio è sempre stato, però, solo disprezzo. Allora meglio uscire dalla via maestra, da quella principale, da quella morale, accettata da tutti, e intraprendere la via secondaria, defilata, nascosta, impervia spesso, perché sporca, violenta, cruda, ma più veloce per raggiungere quella meta che sta tanto a cuore ad Arthur. E così da quegli ultimi gradini della piramide gerarchica di Gotham City si passerà alla sua sommità. Per questo la metamorfosi di Arthur, verso quello che sarà Joker, si deve intendere con una logica verticale, di risalita, come una scalata verso il potere, verso la cima di quella metropoli che tanto l'ha odiato, ma scendendo allo stesso tempo nelle vie più basse e crude della morale umana.
Quello che rimane costante in Arthur è la sua esigenza continua di esibirsi e di indossare una maschera, prima sul palcoscenico, poi per essere un attore del Male (e della sua malattia). Se infatti nessuno lo ascolta o lo aiuta nell’integrarsi nella società, sarà la sua malattia ad aiutarlo realmente a fondo per perseguire i suoi obiettivi. Dal voler divertire per gioco al volere uccidere per davvero. Quando cerca di far ridere, di scherzare, di giocare, non ha l'attenzione di nessuno, ma quando diventa violento, quando lascia che la malattia e il male lo guidino, tutti diventano vigili e lo seguono attenti.  Si passa così dalla risata al pianto. Dal divertimento alla paura. Tutte emozioni viscerali, che esprimono nell'immediato ciò che davvero sentiamo. Insomma, la maschera a cui si fa riferimento non è semplicemente quella fisica, materiale che si pone sopra al volto, ma a quell'insieme di espressioni e segni non verbali che caratterizzano il nostro modo di comunicare. Arthur ha un bisogno spasmodico di comunicare a delle persone che abbiano il tempo e la voglia di ascoltarlo. Ma serve un nuovo linguaggio, un nuovo alfabeto di simboli, che prende il nome di Joker.

ADULTS IN THE ROOM

di Costa-Gavras


FUORI CONCORSO

Filippo Tassinari

2015. Il racconto dei mesi di trattative instaurate dal governo greco, principalmente attraverso il ministro Varoufakis, con l'eurogruppo per scongiurare le misure di austerità.
Film senza rilievi stilistici, ma necessario. 

Voto: 6 e ½


BIK ENEICH- UN FILS (A Son) 

di Mehdi M. Barsaoui


ORIZZONTI

Filippo Tassinari

Tunisia, 2011. Padre, madre e figlioletto, di ritorno da una vacanza, sono vittime di un agguato: il piccolo Aziz è colpito. Portato al pronto soccorso, avrà bisogno di un trapianto di fegato.
Drammone ben congeniato con segreti e colpi di scena che si svelano progressivamente. 

Voto: 6 e ½

EMA

Di Pablo Larrain


CONCORSO

Riccardo Simoncini

Uno dei primi film di Pablo Larrain, Tony Manero, raffigurava un uomo (Alfredo Castro in un ruolo eccezionale) ossessionato dal ballerino de "La febbre del sabato sera". L'ossessione schizoide per il ballo (e per diventare l'ombra di Tony) l'aveva condotto ad una vita fatta perlopiù di inganni e atti deprecabili. Dopo più di 10 anni da quel film e dopo una parentesi internazionale con Jackie, Larrain torna nel suo Cile. E torna a raccontare della vita di chi, seppur non con le conseguenze violente e amorali di Tony Manero, vive trovando conforto nel ballo, nel movimento libero, ma consapevole del corpo umano. Ema è infatti una ballerina. A differenza di Raul, che in Tony Manero cercava l'imitazione ossessiva nei gesti e nell'aspetto, lei cerca la sua libertà, i suoi movimenti, la sua personalità artistica. Vuole uscire da ogni schema possibile: artistico, sociale e personale (nella sua componente sentimentale e sessuale). Per questo non si può intendere questo nuovo film unicamente come un semplice ritorno al passato, perché Larrain sembra continuare, dopo Neruda e Jackie, il ritratto di persone che, con modalità diverse, vivono il successo e l'arte e che devono confrontarsi sempre con un sistema politico o sociale che pare influire pesantemente sulle loro vite. Dopo aver praticamente lanciato nel cinema Alfredo Castro con “Fuga”, qui Larrain investe tutto nel corpo sensuale in movimento di Marina di Gerolamo, che interpreta magistralmente la protagonista Ema nel film. Si racconta il dietro alle quinte dell’arte, dello spettacolo, di chi in un modo o nell’altro sente l’esigenza (o la costrizione) di esibirsi. Per questo motivo può richiamare nella sua struttura il recentissimo Climax di Gaspar Noé (e al cinema del regista argentino deve tanto questo film), per la sua capacità di raccontare le pulsioni libere, ma istintive, della carne, che si muove e si contorce.  Sembra di respirare la fisicità del corpo, la sua trama e le sue armonie e di poter godere con un’esperienza immersiva di quel ballo sensuale che è la vita. 
Ema è forse l’opera in questo senso più rischiosa e sperimentale del regista cileno, perché si sbilancia ed ama osare, puntando su uno stile eccessivo ed invasivo. E non deve infatti stupire che il film abbia diviso pubblico e critica, perché è difficile relazionarsi con un’opera di questo tipo (sia durante che dopo la sua visione). Più che da spiegare, Ema deve essere infatti vissuto, in un flusso di libertà come la sua protagonista, che ama dare fuoco con un lanciafiamme alla realtà che la circonda. E come quelle fiamme del getto di fuoco, Ema arde, muovendosi con una libertà infinita e distruttiva. Anche se quelle stesse fiamme a volte possono bruciare. E fare male. 

WASP NETWORK

Di Olivier Assayas


CONCORSO

Filippo Tassinari

990, Cuba. Un pilota di aereo diserta e si rifugia a Miami, lasciando moglie e figlia. Negli USA si forma una rete organizzata di dissidenti cubani anticastristi.
Assayas racconta una storia realmente accaduta costruendo un intreccio di spie e doppiogiochisti appassionante. Voto: 6 e ½

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