1.9.20

Recensione: "The Dead and the Others" - L'InMubinologo, alla ricerca di perle nascoste su Mubi - 3- di Riccardo Simoncini


Torna una delle rubriche più accattivanti per me (anche se per adesso non sono mai entrato su Mubi...), ovvero quella di Riccardo e il suo scovare su quella bellissima piattaforma i film più interessanti da vedere.
E questo lo sembra davvero molto...
La parola a lui.
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Magico come un sogno tormentato senza tempo, reale e preciso come un trattato etnografico contemporaneo, ‘The Dead and the Others’ è un viaggio esistenziale alla ricerca delle radici ancestrali del dolore. Un mondo di natura e di lutto visto attraverso gli occhi già adulti di un giovane indigeno di 15 anni, che cova dentro di sé uno strano disagio spirituale.


Disponibile nella Videoteca/Library MUBI (anche sottotitolato in italiano).
Vincitore del Premio Speciale della Giuria nella sezione ‘Un Certain Regard’ del Festival di Cannes 2018.
(presenti spoiler dopo l’ultima immagine)  



È notte. Tutti dormono. Tutti tranne Ihjac, un indigeno della tribù Krahô del nord del Brasile.
Ha appena 15 anni, ma capiamo subito che la sensibilità che lo caratterizza non è quella di un adolescente. Sì, perché qualcosa lo lega alla natura incontaminata che gli sta attorno. Qualcosa che l’ha svegliato in quella notte, mentre tutti gli altri esseri umani riposavano in silenzio, dopo che è calato il sole.
La foresta infatti non sta dormendo, e con essa anche le anime e gli spiriti che la abitano. Basta saperli ascoltare, individuando la giusta frequenza in quel concerto di voci animali che si sovrappongono e si alternano.
Proprio lì, proprio in quella notte, Ihjac incontra, dopo averlo visto in sogno, lo spirito del padre defunto. Ma non sarà un abbraccio caloroso a ricongiungere i due familiari. Quanto più una richiesta sommessa ed esasperata.
L’anima del padre vaga infatti al freddo e al buio. Perché nessuno ha ancora organizzato la festa funeraria che gli permetta finalmente di raggiungere il villaggio dei morti.
Quel padre, ora solo più spirito, gli chiederà dunque di preparare la cerimonia rituale perché il suo lutto possa finalmente concludersi.
Ihjac non sa ancora, però, che quella non è una notte come tante, ma è invece il primo segno di un’evoluzione spirituale che lo riguarda in prima persona.  

Così inizia ‘The Dead and the Others’, con un incontro che si tinge di magia nella sua massima tragicità. Un incontro tra un vivo e un morto. Tra un figlio e un padre. E ad unirli la presenza monumentale di una natura che presto sarà a sua volta legata indissolubilmente proprio al nostro giovane protagonista. 

Quel padre, scopriamo, è morto diversi anni prima di quell’incontro, ma nessuno si è mai dedicato nel frattempo al suo destino, lasciando la sua anima così sospesa in un limbo spazio-temporale che lì lo imprigiona, tra chi possiede ancora un corpo e chi invece l’ha perso definitivamente. A metà strada tra il villaggio dei vivi e quello dei morti.

E così lo stesso Ihjac nasconde ancora dentro di sé il dolore di quella perdita, di un padre che non è né vivo né morto. Né carne materica, né ricordo spirituale. Impossibile dimenticarlo, impossibile lasciarlo andare.
Ma nel frattempo il giovane indigeno, nonostante la sua età, si è già costruito una sua famiglia, con una moglie e un figlio. Ma ora quell’incontro notturno sconvolgerà tutto. Perché ravviverà un fuoco interiore che prima era stato celato, ri-accendendo quel profondo dolore che Ihjac pensava di aver superato.  


Osserviamo dall’interno la vita di quella comunità indigena, respiriamo l’aria della loro quotidianità fondata sulla tradizione, su un rapporto quasi simbiotico con la natura che li circonda.
È cinema osservazionale, contemplativo, di attesa e di ascolto, dove persino la paura e l’orrore vengono privati di ogni accezione dinamica. La tensione diventa pietrificazione, paralisi di muscoli che non possono nemmeno più tremare. Non si può scappare da quei mostri: bisogna stare lì ed affrontarli.
Tutto assume così un carattere ancestrale, quasi senza tempo, di fronte ad una natura sì viva, ma stazionaria ed irremovibile, come un millenario albero con le sue profonde radici conficcate nel terreno.
Quel mondo diventa pervaso da una magica poesia del quotidiano, che risuona nei suoi attimi ripetitivi essenziali, ma che in quello spazio sembrano diventare ora straordinari.
Mettersi lo smalto, giocare nel fiume, fare una partita a calcio o sentire vecchi racconti su sciamani del passato: ogni azione è dilatata, ma precisa e approfondita nella sua descrizione visiva e sonora, tanto da diventare unica, speciale e quasi anacronistica.
Così i due registi riescono saggiamente ad unire la dimensione documentaristica (e quasi cronachistica) a quella del sogno magico (tipicamente di re-invenzione cinematografica).
Potremmo definirla “drammaturgia del reale”, quella che nel cinema contemporaneo abbiamo imparato a conoscere, tra gli altri, attraverso i nostri Roberto Minervini e Pietro Marcello. Cito a tal proposito ‘Stop the pounding heart’ (di Minervini) che richiama per molti aspetti proprio il film qui recensito, nel racconto di una solitaria comunità texana sospesa tra una quotidianità ripetitiva e una spiritualità di timore nei confronti di Dio. Ma anche ‘Bella e Perduta’ (di Marcello invece) e del suo mondo sospeso tra i vivi e i morti (proprio come l’anima del padre di Ihjac), dove la natura può parlare attraverso la voce di un piccolo bufalotto, sensibile tanto quanto il suo padrone, l’Angelo di Carditello.
Storie di dimenticati e di ultimi, che nel cinema trovano un riscatto come nuovi protagonisti, straordinari come eroi di finzione.
Impossibile non citare poi anche tutto quel prolifico filone etnografico, che ha portato grandi capolavori di analisi umana e sociologica, di cui è un notevole rappresentante il colombiano Ciro Guerra, autore dei meravigliosi ‘Oro Verde’ e ‘El Abrazo de la serpiente’.
Cinema di grande empatia che guarda e che non ha presunzione di giudicare. Ma che si accontenta di studiare, anche se non capisce. Per scoprire culture nuove. Per scoprire modi di pensare, tanto veri quanto inaspettati.

 La dimensione statica e quieta della quotidianità del villaggio evidenzia marcatamente così tutti quei momenti invece inusuali, che Ihjac inizia a vivere improvvisamente dopo l’incontro con il padre defunto. 

È una stranezza travestita di normalità, di grandi uccelli che si muovono rumorosamente nel cielo, di presagi e di segnali, che solo chi sa ascoltare la natura può realmente cogliere.

Il giovane indigeno, infatti, dopo quell’onirico incontro notturno, sembra covare uno strano disagio interiore, un peso di cui liberarsi, una malattia spirituale ed esistenziale che gli assorbe completamente le energie, ma che è difficile spiegare e condividere.
È una condizione simile (seppur con motivazioni ed esiti totalmente diversi) a quella di Alicia in ‘Magic Magic’. Un sentimento così personale e privato, da essere impossibile da razionalizzare. Uno stato di irrequietezza a metà tra il reale e l’onirico, che la fa lentamente sprofondare in un profondo buco nero.
Ecco la dimensione magica più volte citata: un carattere estetico e narrativo che non è mai eccessivo, voyeuristico o spettacolare, che richiama per molti aspetti quello del cinema misterioso e atemporale di Apichatpong Weerasethakul. Il suo film ‘Lo zio Boonmee che si ricorda le vite precedenti’ conserva infatti diversi elementi in comune con quello qui trattato, reinterpretando allo stesso modo una tradizione (e una cultura) in chiave onirica e metafisica ed abbandonando (almeno per un momento) la logica occidentale, che vuole invece ricondurre tutto a perfetta razionalità.
La vita, la morte e lo spirito che li unisce si trasformano in un grande sogno ad occhi aperti che non finisce, non esplode, non porta a morte né a vita. Perché lì ti costringe e lì ti blocca, ad essere ciò che è sempre stato. Come quell’anima di quel padre che non può essere né vivo nel villaggio dei vivi né morto nel villaggio dei morti.  


Ihjac insomma inizia a sentire le manifestazioni di ciò che va a costituire nel complesso il concetto tribale di Mecarõ (“spirito della foresta”). Entità nascoste strettamente connesse alle forze della natura. Pericolose ed imprevedibili, ingannevoli e polimorfe, in grado di essere percepite tecnicamente dai soli sciamani.
E proprio questo è infatti il destino che gli viene assegnato. Questa la diagnosi tribale del suo dolore: la lenta trasformazione come sciamano, una condizione di massima sensibilità e superiorità, che Ihjac non vuole però abbracciare.
Lui, un indigeno di appena 15 anni, così diverso apparentemente da quei saggi anziani sciamani di cui ha tanto sentito parlare. Lui, che vuole essere un giovane normale, uno dei tanti.
Ma il dolore che ha dovuto provare e la sensibilità che lo caratterizza lo avvicinano molto più di quanto pensi a quelle entità di cui ha paura.
Forse, infatti, quel disagio interiore che percepisce non è che la diretta conseguenza della sua evoluzione spirituale. Forse la sua malattia è in realtà la sua forza. Solo che non la conosce, non sa controllarla e per questo la teme.
Ha paura della responsabilità che quell’antica tribù (e gli spiriti che la abitano) gli hanno affidato.
E per questo farà di tutto per sottrarsi ad un destino di cui sembra impossibile spogliarsi. Anche a costo di negare la sua cultura, anche a costo di scappare, da quella tribù che l’ha generato. Spera infatti che lo spirito della misteriosa Ara (che l’ha scelto come sciamano) si dimentichi presto di lui.

Andrà dunque via, ma là fuori c’è un mondo inaspettato che non conosce: il moderno Brasile cittadino, fatto di assordanti trasmissioni radio ed incessanti telefoni squillanti, che sovrastano una natura rilegata qui invece solo sullo sfondo.
È un mondo diverso, dinamico, pieno di altre convenzioni e tradizioni, forse in egual modo assurde e primitive come quelle della sua tribù, ma sicuramente inconciliabili con il suo animo da indigeno, ormai sciamano.
Lì la medicina tradizionale lo vedrà come un semplice ipocondriaco, troppo ansioso per sintomi considerati insignificanti e troppo sano per essere accolto in una “Casa di sostegno” per i malati della città.
Tutte le speranze riposte in quel mondo così apparentemente evoluto si erano dissolte in un istante. Le persone che rappresentavano la sua alternativa al mondo ancestrale avevano infatti sottovalutato la sua condizione, perché troppo estranea culturalmente per essere compresa nella sua eziologia primaria. Nella città, in fondo, la natura, come si diceva, non rimaneva che sullo sfondo. Impossibile per chi ci vive comprendere dunque quel suo spirito, quel suo fuoco ardente, che lo brucia e lo divora. Un fuoco solitario di natura, di spirito. Un fuoco che in quel mondo moderno non ha neanche nome.

Sospeso dunque a metà tra lo stimolo egoistico che lo vorrebbe allontanare dal suo destino e il senso collettivo che lo vede abbracciare le sue origini per salvare finalmente l’anima del padre, Ihjac deve scegliere. Ma il fuoco che divampa dentro di lui non può trovare spazio in quel mondo di cemento in cui si è ritrovato. È imprigionato da una cultura che non lo sa capire.
La fiamma interiore che lo sta divorando deve uscire dal suo corpo, trovando una sua libertà. E lo potrà fare solo in quella stessa natura in cui è nata. Con una consapevolezza ora maggiore.



Ritornato nella sua terra dopo un lungo percorso di auto-scoperta, Ihjac potrà così dedicarsi alla festa funeraria per lo spirito del padre. Si compirà dunque il viaggio di quell’anima a lungo dimenticata.

Ma sarà libero, finalmente, anche Ihjac stesso, divorato fino a quel punto da un disagio spirituale impossibile da sopprimere. Trovando risoluzione, il suo dolore potrà ora sprigionarsi, liberandosi da un corpo che l’aveva prima relegato a semplice malattia.
Circondato dalla natura che sempre lo ha accolto, il giovane indigeno concluderà ciclicamente la sua evoluzione, trasformando in forza la fiamma interiore che prima lo divorava. È un fuoco che arde e che ora lega indissolubilmente il mondo dentro e quello fuori, prima separati invece da una barriera carnale che diventava il suo stesso limite.

Ihjac è in piena sintonia con il mondo, riesce finalmente a cogliere “l’anima delle cose”.
Quella è la sua terra, quella è la sua natura.
Lì non esistono più solo i vivi e i morti. Esistono anche gli Altri. Perfetta sintesi di opposti che non si negano, ma che si riflettono l’uno nell’altro. Come un fuoco rovente che non è più spento dall’acqua gelida, ma che da essa nasce, divampando finalmente libero.

In una notte, mentre tutti dormono. Dopo che la pioggia ha cantato nella sua lingua, ora finalmente comprensibile. Si ascolta la foresta.
Ma non si ha più paura.
Non si può più scappare via.  


2 commenti:

  1. Eccomi, Riccardo.
    Volevo prima commentare A Russian Youth, ma saputo che è stato tolto da Mubi dopo aver aspettato troppo ho deciso di rifarmi qui.
    Che dire, c'è molto cinema di cui abbiamo parlato, il documentario sognante, addirittura l'eziologia, certamente cara agli interessi della medicina. Sembra che questo film abbia portato tanti discorsi semplici in qualche concetto molto più alto e complesso, e la tua scrittura limpida e sospesa l'ha certamente espresso anche a chi legge.
    Ciò che ho pensato leggendoti (anzi, ascoltandoti come in mezzo alla natura di Ihjac) è che la storia di questo ragazzo parli proprio di veleni e medicine. Quelli dell'anima e del corpo, che si rincorrono in tante storie, l'Amleto shakespeariano (anche lì un padre morto tornava a chiedere sollievo a suo figlio...), come nel nostro stesso mondo, dove esiste una pratica curativa chiamata "bagno nella foresta" (la Natura, non a caso), a metà tra scienza e spiritualità.
    Lo Shinrin-yoku ci porta in Giappone, dove avrai immaginato che volessi (come sempre) andare a parare. Il Brasile e le isole nipponiche, due realtà così opposte e così simili. Terre per noi esotiche, natura sconfinata accanto al caos cittadino più febbricitante, spaventoso, attraente. E un passato vissuto tra quelle foreste, quella pioggia, che tu hai menzionato e non hanno potuto farmi venire in mente altro che Principessa Mononoke del maestro Miyazaki. Nell'Ihjac qui narrato ho rivisto Ashitaka, con la sua ferita che non vuole, lo tormenta e forse lo ucciderà, lo rende forte ma chissà entro quale limite, e chissà la cura quale sarà.

    Anche leggere queste recensioni, come parlare di film o immergersi nel creato naturale, scuote l'anima.

    - Enrico

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    1. Che bel commento, Enrico! Grazie davvero di cuore...
      Hai fatto interessantissime osservazioni, mettendo in campo esempi a cui io non avevo minimamente pensato, spaziando con grande precisione dalla letteratura alla cultura generale.
      Come dici, il film in questione parla proprio di veleni (che suggestiva espressione hai usato): sostanze (un po' magiche in questo caso) che, seppur in quantità molto basse, possono avere effetti letali. Qualcosa insomma che magari non si vede, non si misura, non si nota, ma c'è e può uccidere. E in fondo proprio lì sta il loro fascino: l’essere sospese nella loro minima grandezza tra la vita e la morte (proprio come 'The Dead and the Others').

      Il giustissimo e più che poetico parallelismo che fai con il Giappone (quanto è bello Principessa Mononoke) esalta proprio l’aspetto che si sta forse lentamente perdendo nel nostro mondo di tutti i giorni: la spiritualità (non per forza intesa come pratica esoterica, ma anche nella sua accezione più ampia di “sensibilità”). Sembra quasi che nel nostro mondo occidentale volersi dedicare a questa dimensione senza apparenti fini pratici razionali (anche solo semplicemente contemplare la forza distruttiva della natura, come dicevamo in altra sede) sia segno di arretratezza e primitività. Come se dovessimo sempre approcciarci alla realtà filtrandola come un robot o un computer.
      Mi viene in mente a tal proposito il meraviglioso film di Lanthimos ‘Il sacrificio del cervo sacro’, dove il mondo razionale della medicina soffriva appunto l’incapacità della scienza di rispondere alla strana “malattia” che colpiva il giovane Bob.
      Dovremmo forse imparare a ricongiungere forze che vediamo come opposte (scienza e spirito, razionale e irrazionale), perché ne usciremmo probabilmente più arricchiti. In questo senso, come anche in tanti altri casi (e tu me lo insegni sempre), l’Oriente sembra essere un buon esempio.
      Dovremmo solo essere disposti ad aprire la mente. Per fortuna che il cinema e queste riflessioni arrivano in nostro soccorso ;)

      Grazie mille come sempre!

      -Riccardo

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