2.3.22

Recensione: "Animatrix" - Anime e Core, la grande passione per l'animazione giapponese - 14 - di Enrico G-


 Dopo tantissimo tempo (e stavolta non è colpa mia!) torna la rubrica di Enrico sugli anime, una delle più specialistiche del blog.
Vi lascio alle sue righe di presentazione e poi alla, sempre puntualissima, recensione, probabilmente una delle più complete e competenti che troverete in rete su Animatrix

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Orologio indietro, primi anni 2000: un bambino guarda Shrek. In una scena divertentissima, c’è un Robin Hood molto più scemo di quel volpone già visto in un vecchio film della Disney. E poi c’è Fiona, la principessa, che salta e tira un calcio volante, ma tutto è strano, rallentato, l’immagine gira in tondo. Piccolo ricordo per inquadrare quel fenomeno Matrix, famigerato persino tra i bambini che non potevano vederlo perché un po’ troppo violento. Molto meno risaputo, e potenzialmente più temuto dai genitori, che dal 2003 Matrix esistesse anche a cartoni animati, tra l’altro quelli giapponesi da cui non sapevi mai cosa aspettarti.

Rispolveriamo il sorprendentemente misconosciuto Animatrix, un film antologia, nove corti, quattro studi d’animazione, sette registi. Tra quest’ultimi, i migliori esponenti del mondo anime, del periodo e non solo.

Spoiler a partire dai singoli episodi. Disponibile a pagamento in streaming (Chili, Apple Tv, Prime) o nel dvd della Warner Bros (consiglio il doppiaggio italiano, nettamente superiore alla versione originale inglese).


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Immagino che tutti sappiano di cosa sto parlando quando nomino Matrix, ma repetita iuvant, sarò buono: la Matrice è un mondo virtuale creato da intelligenze artificiali, dove gli umani sono prigionieri inconsapevoli. La ribellione delle macchine ha portato alla schiavitù dei vecchi padroni, che in una Terra ormai distrutta dalla guerra perduta sono ridotti a batterie neurologiche. Non mi addentro sulla credibilità della cosa, parliamo di fantascienza e un minimo di sospensione dell’incredulità è d’obbligo: personalmente capisco il fascino di questa idea, una sorta di Caverna di platonica memoria, con tuttavia l’aspetto inequivocabile del mondo filmico anni ’90. L’azione con sperimentazioni in cgi, la critica all’alienazione del mondo lavorativo, i cappottoni di pelle nera rubati a Blade che oggi fanno sorridere, non manca niente.

Matrix (1999) è stato preannunciato dal suo fratellone semidimenticato, Bound (1996), film d’esordio dei fratelli (oggi sorelle) Wachowski, che pur essendo un thriller tiene in nuce svariati elementi del futuro cult fantascientifico, come lo stile, una certa visione della sessualità e pure la viscida performance di Joe Pantoliano. Ma appunto, è solo col successivo che i Wachowski centrano un successo globale, attorno al quale nascono videogiochi, spin-off, due sequel che portino a compimento l’immancabile trilogia. (Come dite, esiste anche un quarto Matrix? Mah, ho i miei dubbi, e poi anche s’esistesse rimarrebbe un’idea bislacca e a dir poco inutile, non trovate?)

Trattare i live action non è il mio campo, almeno in questo spazio, ma per introdurre ciò che davvero m’interessa, spendiamo due parole sulla trilogia: essenzialmente ne penso ciò che pensano molti. Il primo film è un meritato cult, che pur saccheggiando a destra e a manca (ci torno tra un attimo) riuscì a far confluire tutte queste ispirazioni in una forma e contenuto originale, in grado di intercettare perfettamente lo zeitgeist della sua epoca. A mio parere è stato frutto di un delicato equilibrio, da una parte i fondi e le esigenze commerciali di una major come la Warner Bros, rappresentata dal produttore Joel Silver, santo patrono del miglior action hollywoodiano con titoli come Die Hard o Arma Letale; dall’altra, due registi ambiziosi con l’idea giusta, fattisi portatori della novità venuta da Hong Kong, sia nelle istanze dei film d’azione orientali che nella persona di Yuen Woo-Ping, coreografo leggendario. Equilibrio, sempre a mio parere, totalmente spezzato nei sequel Reloaded e Revolution. Dopo il successo inaspettato del capostipite la Warner deve aver capito che finché c’erano Neo, Trinity e Morpheus avrebbero incassato lo stesso, quindi hanno lasciato carta bianca ai creatori, che in una sbornia di cose da dire hanno creato due baracconi confusi, pretenziosi e inondati di effetti invecchiati malissimo.

Ma se c’è almeno un elemento di redenzione nei sequel, sta che nel mentre della loro lavorazione si stava parallelamente creando per promuoverli un enorme universo cross-mediale. Consci delle influenze che la loro creatura doveva agli anime, in particolare ai lavori di Mamoru Oshii (Ghost in the Shell, l’Uovo dell’Angelo), i Wachowski hanno pensato bene di chiedere ad alcuni dei più grandi animatori dal Giappone di creare alcuni corti ambientati nel mondo di Matrix, a formare uno spin-off, ed è quello di cui parliamo oggi: Animatrix.


 L’ultimo volo dell’Osiris


Importante premessa, parlando in ordine dei corti che compongono l’antologia: non esistono segmenti veramente brutti, solo più o meno belli, o più o meno inutili. Aiuta molto la godibilità dell’opera che siano posti in una specie di spirale ascendente, dove più si va avanti e più la qualità s’impenna. Quindi capite bene che L’ultimo volo dell’Osiris sia ben lontano dall’essere un inizio esaltante. Unico americano del gruppo, e scritto dai Wachowski, è probabilmente il più vicino allo spirito dei sequel (purtroppo). Non a caso la storia si propone di chiarire un’omissione della serie cinematografica (capito Rogue One? Sei già superato!), ovvero come abbiano fatto i ribelli a sapere in anticipo che le macchine progettavano di colpire la città. Una navicella di Zion, appunto Osiris, la cui squadra sta facendo una ricognizione della superficie, scopre casualmente come le macchine intendano usare una gigantesca trivella e… basta. Davvero, si può a malapena parlare di pretesto, che si ricollega giusto a quella scena di Reloaded dove Niobe fa rapporto sull’ultima trasmissione. Più che la storia interessa la tecnica: questo è l’unico corto interamente girato in computer grafica, avanguardistica per l’epoca (anche se esistevano già simili esperimenti ben più ambiziosi, come il film di Final Fantasy del 2001, peraltro sempre animato dalla Square Company). E va detto, se i volti e i movimenti sono ancora alquanto espressivi certo non è stato uno spreco di tempo e soldi. Purtroppo rimane un mero esercizio, che preferisce ad un racconto interessante le scene d’azione, come quella iniziale famosissima dove i due spadaccini si tagliano poco a poco i vestiti di dosso, per pure esigenze di fanservice. Dulcis in fundo, non smetterò mai di ripeterlo: l’animazione in cgi invecchia. E anche questa, vent’anni dopo appare più “costosa” che “bella”. Vedremo di meglio più avanti, sia come tecnica che narrativa.

Il Secondo Rinascimento parte I e II


Ecco il corto di punta dell’antologia, il più lungo del gruppo (infatti è diviso in due) e probabilmente anche il più ambizioso, nel suo voler dare un retroscena alla guerra delle macchine, a come tutto è iniziato. Si dice fosse questo il vero seguito di Matrix ambito dai Wachowski, cestinato come lungometraggio poiché non avrebbe incluso, per ovvie ragioni, il cast del ’99. Informazione da prendere con le pinze, poiché non ho trovato conferme a riguardo. I fatti sono che quell’idea, in qualunque forma fosse stata concepita, ora esiste come corto animato, diretto da Mahiro Maeda, forse meglio conosciuto per aver animato l’infanzia di O-Ren Ishii, nel volume 1 di Kill Bill. E lo dico subito, è un tipo di tratto che non mi ha mai fatto impazzire, tantomeno nel film di Tarantino; però Maeda ha indubbiamente occhio per le immagini efficaci, di quelle che non ti si levano più dalla testa, e si sposa benissimo con le infinite possibilità offerte da un prequel di Matrix. Oddio infinite, bisogna sempre legarsi alla mitologia della saga americana, con i classici buchi logici alla Wachowski. Per esempio, non si capisce minimamente come le macchine abbiano improvvisamente sviluppato una coscienza propria, o come siano finite ad insediarsi in Arabia, immagino con grande gioia dei sauditi. Che poi lo sa sta gente che la “culla della civiltà”, come viene detto, non è la penisola arabica ma la Mesopotamia?

La storia è raccontata dagli archivi parlanti (?) di Zion – anche qui, nel film originale non diceva Morpheus come gli umani avessero solo “brandelli d’informazione”? -, e si compone di una sorta di reportage, scelta assolutamente vincente nonostante significhi non avere personaggi protagonisti da conoscere o con cui empatizzare. È semplicemente il racconto di un’autodistruzione, attraverso immagini shock che ricordano fin troppo vere proteste, violenze di strada e conflitti armati. La parte uno regala ottimi momenti, come la mela che simbolicamente si decompone in un cervello, o i robot che trainano con le funi enormi blocchi, iconografia che rimanda alla nostra percezione di come furono costruite le Piramidi di Giza; ma è nella seconda il meglio, la bandiera in fiamme (che fa il verso alla foto di quella americana issata su Iwo Jima), la donna piangente nel cerchio di fuoco (che sembra la cacciata di Eva dal paradiso terrestre) e chissà quanto altro con riferimenti che non ho colto. E poi l’immagine più bella e sinistra di tutte, il generale che diventa uno scheletro che applaude, inquietante premonizione di un’umanità firmataria della propria stessa condanna a morte: infatti quella sequenza emozionerà chi conosce bene il Matrix originale, poiché qui, di fronte allo strapotere delle macchine, viene deciso di togliere loro la principale fonte d’energia, esattamente come dice Morpheus a Neo: “ma sappiamo di essere stati noi, ad oscurare il Sole…” Così viene fatto, ma in una macabra ironia la strada presa per evitare un problema è proprio quella che vi conduce. Gli ultimi minuti de Il Secondo Rinascimento sono infarciti di body horror, che si sposta dai campi di battaglia ai laboratori dove le macchine sperimentano e seviziano gli umani, scoprendo la loro nuova fonte di energia. Interessante come, in questa transizione, si passi da una moltitudine eterogenea di robot senzienti (design immensamente creativi a proposito, specie il cavaliere meccanico che suona la tromba di guerra), alle oscure figure di sentinelle e raccoglitori, tutte uguali, omologate, come se la società robotica stesse percorrendo lo stesso cammino rovinoso degli ex padroni. Retrocesse alla loro disumanità originaria, si chiude il cerchio della storia, le macchine sono pronte per la loro creazione suprema, la Matrice.


Kid’s Story


Chi di voi, guardando Matrix Reloaded, non si è mai chiesto “ma perché non ci dicono di più su quel ragazzino insopportabile che ripete a ruota come Neo l’abbia salvato?” Esatto, nessuno. Ma visto che l’hanno fatto, tanto valeva chiamare qualcuno di capace per tirarci fuori qualcosa di interessante. Entra in campo Shinichiro Watanabe, regista che definire di culto è riduttivo: Samurai Champloo, ma soprattutto Cowboy Bebop sono serie con numeri impressionanti di appassionati (di livello “ci stanno facendo i remake con attori veri per Netflix” impressionanti). Ovviamente non avendole mai viste non posso giudicare, e fatico quindi a dare un giudizio complessivo sul regista di Kyoto. Una delle sue serie più recenti, Terror in resonance, la vidi e non mi piacque affatto, specie nella scrittura del personaggio femminile principale, tremendamente passivo, ma avevo sedici anni e potrei non averci capito niente. Apprezzai molto invece Black Out 2022, un stiloso corto di 15 minuti che, come potete intuire dal nome, racconta l’avvenimento più volte menzionato in Blade Runner 2049, quando Ryan Gosling investiga alla Wallace Corporation (se siete interessati si trova su youtube o nei dvd del film di Villeneuve). Curiosamente, quest’ultimo lavoro ha le stesse caratteristiche di Kid’s Story: prodotto dalla Warner, fornisce i retroscena di un evento minore, avvenuto nel sequel di un famoso cult di fantascienza, a sua volta debitore dell’estetica nipponica.

Dietrologie a parte, veniamo al sodo: com’è? Sperimentale, tanto per cominciare. Il tratto è spesso, nervoso, poco dettagliato come quello di un storyboard non totalmente finito. Nella forma di corto la tecnica d’animazione può essere decisiva, quasi quanto la storia, visto che, senza nulla togliere agli attori in carne ed ossa, loro appartengono comunque alla nostra realtà. I disegni no, i disegni possono crearne una nuova semplicemente esistendo, e così succede qui: le palesi imperfezioni sono volute, rappresentano il punto di vista del ragazzo, il modo in cui vede un mondo che non gli sembra vero, e noi sappiamo che ha ragione, è prigioniero di Matrix. Tenterà la fuga, in un inseguimento a scuola che è senza dubbio la parte migliore, una sequenza concitata e adrenalinica, il mondo che si deforma, rallenta, accelera, rimbomba, e si conclude col più classico “salto della fede”.

Ecco, forse è questo il limite dell’opera, una buona forma intrappolata nella sceneggiatura dei creatori originali di Matrix, ottima nel suggerire, molto meno nel dare un senso, specie sul finale dove di fatto il ragazzo compie un suicidio e te la buttano in “ah, l’auto-materializzazione è possibile? Non lo sapevo!” Come si è liberato, con la pura volontà? Il suo corpo nel mondo virtuale si è scisso da quello vero e così non è morto? Non ci è dato sapere. Watanabe riproverà più avanti; l’ingombrante mano dei Wachowski invece si ferma a Kid’s Story, l’ultima delle otto storie scritta da loro: ora si comincia a fare sul serio.


 Program


Sesso, dolore, violenza e morte: in una parola, il cinema di Yoshiaki Kawajiri, il mio regista preferito della storia dell’animazione, che qui firma ovviamente il corto più bello dell’antologia. Chi conosce Ninja Scroll, Vampire Hunter D – Bloodlust o la Trilogia delle città maledette può riconoscere istantaneamente il suo tocco anche qui. Certo, c’è l’obbligato tributo ad un mondo d’appartenenza già delineato da altri, ma anche questo viene filtrato da una visione. Basta pensare alla rinnovazione del classico effetto “a scorrimento” su sfondo bianco, che nel Matrix originale portava dall’orizzonte al primo piano scaffali pieni d’armi; qui, un sorriso della protagonista e siamo tra centinaia di torii, i rossi portali sacri dei santuari giapponesi (probabile citazione al percorso dei 1000 torii di Fushimi Inari-taisha, in Kyoto). Il Giappone feudale sembra essere il programma d’allenamento preferito di Cis, che in tenuta da cavallerizza si destreggia tra frecce infuocate e samurai virtuali, in solo la prima delle sequenze d’azione da mozzare il fiato. Almeno finché non arriva un cavaliere mascherato, il suo amante, Duo.

“Un uomo non può negare la verità, non può tornare volontariamente nelle tenebre, o diventare cieco, se ha ricevuto il dono della vista… come non può tornare non nato”

Così comincia la lettera del socio anziano, che dà inizio alla trama di quel film attaccabilissimo ma enormemente affascinante che è La Cura dal Benessere. E proprio questo vuole fare Duo, tornare nelle tenebre, in Matrix. Cis invece sa di non poter dimenticare la verità, si rifiuta di unirsi all’amato. Comincia un affascinante scontro sia fisico che verbale tra i due: le prime giocose schermaglie, inframezzate da momenti di pace tra la neve che sembrano prese dal miglior Kawabata, come quando lei salta sulla lancia di lui mentre l’albero di bambù cade in secondo piano; dicevo, le prime giocose schermaglie lasciano il passo ad una zuffa violenta e disperata, giocata tutta sulle contrapposizioni che affascinano Kawajiri, uomo e donna, amore e sofferenza, chi sembra pericoloso e chi è pericoloso. Un corto magnifico, con un finale che è sollievo, sorpresa e amarezza insieme, da vedere mille e più volte, scritto e diretto, per chi scrive, da un vero genio.


 World Record


Questa è un’altra piccola perla, ancora una volta per fortuna (almeno mia), scritta da Yoshiaki Kawajiri. Stavolta però il maestro non prende lo scranno dietro la macchina da presa, e lascia le redini al suo allievo più promettente, Takeshi Koike, qui in uno dei suoi primissimi ruoli da regista dopo anni come animatore e intercalatore alla MadHouse, la casa cinematografica che produce ovviamente anche Program e World Record. E nonostante la giovane età (esordirà nel lungometraggio solo 6 anni dopo), si riconosce benissimo lo stile visivo sporco e sopra le righe di Redline, de La Donna chiamata Fujiko Mine e quella meraviglia della Trilogia su Lupin III, di cui ho già parlato per Anime e Core e si sta tuttora espandendo.

La storia è quella di un atleta, che sta appunto cercando di battere il record del mondo, anche per riabilitarsi dopo una storiaccia di sospetto doping. Praticamente l’intero corto si svolge sul campo da corsa, spezzato da qualche segmento a dare brevi riferimenti e contesto allo spettatore. Sta di fatto che quest’uomo corre, e talmente forte da sfaldare ciò che lo tiene legato a Matrix. Idea a dir poco affascinante, che si possano spingere talmente in là i propri limiti fisici da raggiungere un diverso piano dell’esistenza. Tutto ciò viene espresso dal tratto particolarissimo di Koike, dettagli micro che diventano macro, la pelle nera dell’atleta che si dilata, i suoi capelli ricci che svolazzano, le scarpe che fendono il tartan, i suoi muscoli, talmente contratti da farti quasi temere che possa morire nello sforzo. E invece i legacci che lo tengono avviluppato si spezzano come elastici secchi, a nulla valgono gli sforzi degli agenti che cercano di fermarlo; l’orizzonte si scompone, numeri rossi che diventano mondo rosso, quello vero, degli umani addormentati nelle capsule. È solo un attimo, prima che una celere sentinella intervenga per rimetterlo a dormire, ma ormai sa, steso sulla pista, l’essere più veloce del mondo che camminare non potrà mai più. E poi c’è quel finale da brivido, forse il più bello dell’antologia, lui in carrozzella, spinto da quell’infermiera dal tratto molto kawajiriano, quasi inquietante. “Libero” dice lui, mentre il ferro che gli imprigiona le gambe vola via. Stai giù, non ci provare, dice l’agente, un ordine impaurito, quasi un consiglio da amico. “Libero”, ripete Dan imperterrito. Si alza, accenna un passo. Speri ce la faccia ma è solo un momento, il campione del mondo crolla in ginocchio, il sistema ha vinto. Matrix è ancora troppo forte. Ma non così forte.


Beyond


Ecco, se non fosse per l’imbattibile presenza del maestro dietro i due precedenti, questo sarebbe il mio segmento preferito. Ancora una volta abbiamo un’animazione totalmente diversa, colorata, morbida (si potrebbe dire che la varietà è il maggior pregio di Animatrix), molto lontana dai tagli scuri e teatrali che sono un po’ il pane della MadHouse. Il regista/sceneggiatore è Koji Morimoto, di cui purtroppo posso dire ben poco: è noto soprattutto per raccolte di cortometraggi come questa, a cui per un motivo o per altro non ho mai avuto accesso, ed ha avuto il privilegio di lavorare come animatore al cultissimo Akira. Anni dopo ricambierà il favore al regista, il suo sensei Katsuhiro Otomo che l’aveva lanciato, producendogli i progetti Memories e Spriggan nel suo Studio 4°C, che nel frattempo aveva fondato assieme ad Eiko Tanaka. Lo stesso che ha prodotto i corti di Animatrix, eccetto quattro (i due precedenti, il primo e l’ultimo, per ovvie ragioni), ma a cui devo soprattutto la mia gratitudine per aver creato il capolavoro I Figli del Mare, il mio film preferito del 2019. È proprio vero, i quattro gradi Celsius a simbolo dello studio rappresentano un cinema pregno di contenuti e innovazione, come l’acqua che a quella temperatura raggiunge la massima densità. O almeno così mi hanno detto, e lo prenderò per buono poiché sono sempre stato una schiappa in scienze.

Scherzi a parte, quella di Beyond è davvero la storia più bella del mucchio, sia nella scrittura che in com’è raccontata. Comincia con una ragazza che ha perduto il proprio micio, e girovagando per ritrovarlo si imbatte in dei bambini e gli strani racconti sulla casa infestata della zona. Viene portata lì, ed effettivamente nulla sembra avere senso: da un foro piove anche se c’è il sole fuori, gli animali si comportano in modo strano, oggetti compaiono e scompaiono, il tempo e la gravità non hanno più regole. Noi spettatori ovviamente sappiamo: questi non sono fenomeni paranormali, ma glitch di Matrix. Un’idea geniale, appena accennata nel film originale (“Un deja-vu è di solito un glitch di Matrix, avviene quando cambiano qualcosa…”) e qui invece pienamente vissuta.

Vita, ecco di cosa è impregnato Beyond, desiderata, cercata negli anfratti delle case stregate. Forse la protagonista, guidata dall’animale nipponico per eccellenza, stava per conoscerla. Dietro una porta chiusa sul nero pesto, per anni ho pensato ci fosse l’ignoto ad attenderla; ultimamente penso che la casa volesse darle un’ultima possibilità di fuga, per quanto spaventosa potesse sembrare la verità. Tutto è possibile, di certo lì non si vedranno più bambini che giocano con colombe che volano al rallentatore, o ombre che vagano per conto loro. La bugia delle macchine, la sua essenza catturata più in 10 minuti animati che in una costosa trilogia hollywoodiana. Matrix non è terribile perché ci sono gli Agenti brutti e cattivi, che sparano, inseguono, interrogano. No, Matrix è terribile perché toglie la spontaneità, la spinta creativa, la disarmonica armonia dell’esistenza, l’innato e inspiegabile bisogno umano del misterioso e incomprensibile.

Difficile non provare un minimo di angoscia davanti a quel finale, la fredda distesa di cemento, lo sconforto dei ragazzini, la faccia inespressiva di lei. Come Howl nel suo castello errante, nel film dell’insostituibile Miyazaki, che si dispera, mani nei capelli mal tinti, cade in depressione perché “senza Bellezza, che senso ha vivere?”. È vero, che senso avrebbe senza cartoni come Beyond, senza i film, senza i libri, senza le idee folli, bizzarre, ridicole, fantasiose, stupide, poetiche che arrivano dal Sole nascente?


 A detective story


Dalla storia di un ragazzo alla storia di un investigatore, torna Shinichiro Watanabe in completa libertà creativa e col suo miglior contributo all’antologia. La storia è semplice, e naturalmente con protagonista un detective, che riceve l’incarico di localizzare per conto di ignoti la hacker Trinity. Il lavoro è ben pagato, ma presto scopre che già tre suoi colleghi sullo stesso caso hanno fatto una brutta fine…

Insomma, un canovaccio poliziesco come tanti altri, adeguato al nostro protagonista che voleva essere “come Sam Spade o Philip Marlowe”. La vera carta vincente è l’atmosfera, impregnata di cinema noir fino al midollo, e la tecnica con cui è convogliata, una splendida animazione in bianco e nero, granulosa ma raffinata al tempo stesso. Mi ricorda non so bene perché la bellissima serie Gosick, forse per il modo in cui omaggia gli anni ’40 come questa faceva con la Belle Epoque e gli anni ’20. Tanti gli stilemi del genere qui: voce profonda che provvede alla narrazione, musica d’ambiente, l’investigatore squattrinato e dall’impermeabile liso, l’odore di intrigo che il nostro segue con caparbietà e spirito autodistruttivo. Molte però anche le idee originali, come ambientare un noir classico, coi suoi tram e le città nebbiose, nel ventunesimo secolo dell’internet e la robotica. Uno steampunk al contrario insomma, che è appunto la visione di un passato dove esistono tecnologie futuristiche. Essere dentro Matrix non impedisce a Watanabe di raccontare una piccola storia, lontana da ribellioni e gente svolazzante, su cosa faccia un detective in un giorno qualunque del suo strano mondo. Il caso è intrigante, gli indizi creativi (con citazioni ad Alice nel Paese delle Meraviglie sempre benvenute), le giuste domande lasciate in sospeso (mi piace come non venga spiegato se il terzo detective, quello scomparso, è stato “svegliato” o preso dagli Agenti); se devo dire un difetto, è proprio la nostra dark lady, rappresentata qui da Trinity. Passino i motori di ricerca analogici, ma vedere in questo racconto noir sta tipa vestita da sadomaso e con gli occhiali da sole al chiuso è un pugno in un occhio, non si può vedere. Per di più in un finale così, in mezzo alla neve, su questo treno notturno che fende la notte…

Per il resto A detective story mostra zero falle, ed ha una chiusura proprio “giusta”, specie considerato il genere, meravigliosamente circolare: non sarà “il caso che chiude tutti gli altri”, ma fa il suo sporco lavoro con eleganza e stile.


Matriculated


Parlando di Watanabe, questo se vogliamo è ciò che Kid’s Story non ha potuto essere: il segmento finale dell’antologia, opera non di un giapponese, ma del particolarissimo regista coreano Peter Chung. Anche lui tra l’altro non troncherà i legami con le saghe fantascientifiche americane, anzi appena un anno dopo Animatrix dirigerà Dark Fury, gustosissimo mediometraggio di collegamento per l’universo di Riddick, il criminale spaziale furiano interpretato da Vin Diesel. Probabilmente rimane meglio conosciuto per aver diretto Alexander, stramba serie sul grande imperatore macedone, e soprattutto il cartone di Aeon Flux. Conoscenza marginale dunque, ma quello di suo che ho visto l’ho in genere adorato, e aggiungerei il raro complimento, che Chung è uno dei pochi registi al mondo di cui mi piace l’uso consistente di animazione 3D. (Visto? Non sono un fanatico della tradizionale, si tratta sempre di uso intelligente o meno delle tecnologie.) Il nostro coreano infatti usa molta computer grafica, e non certo costosa o raffinata come quella dell’Ultimo volo; però, la usa in massima parte per gli ambienti: ergo, per oggetti inanimati, spesso meccanici, quindi molto più adatti ad essere rappresentati così, mentre la nostra attenzione tende a concentrarsi sui protagonisti, che sono invece disegnati in due dimensioni, permettendo al cuore della storia di esprimersi al meglio, senza temere macchinosità o invecchiamento precoce. Bravissimo Peter Chung, è così che si fa.

Tutto ciò testé detto, non fa eccezione per Matriculated.

Racconta di un gruppo indipendente di umani ribelli, intenti a catturare le macchine che gli capitano a tiro. Invece di distruggerle però, questi individui le inseriscono in un programma di simulazione, e tentano di renderle loro alleate. Come? Addestrandole a riconoscere ed apprezzare l’umanità in tutti i suoi aspetti: il gioco, l’empatia, la curiosità, l’attrazione… insomma, creando letteralmente la cosiddetta “spontanea volontà” di essere amici degli umani, attraverso una serie di bizzarre e psichedeliche immagini. L’idea di insegnare l’umanità ad un’I.A. è profonda e approcciata anche in modo sensato: non servono parole, le immagini sono molto più utili e immediate. E funziona: questi catturano una macchina (tra l’altro dal bellissimo design che cambia in base alla funzione, la modalità insetto per l’inseguimento, la modalità tentacolare per il combattimento) e riescono nell’impresa, come si percepisce dal suo cambio di atteggiamento. Addirittura si modifica la percezione di sé, tanto che nel mondo simulato smette di essere macchina e diventa umanoide. In particolare il droide sviluppa un attaccamento per Alexa, una ragazza del gruppo, ma le sentinelle attirate dal vecchio sé stesso arrivano interrompendo il processo e uccidendo tutti gli umani, nonostante l’intervento della macchina contro i propri simili. Il corto si conclude in maniera impeccabile, un po’ come in Detective Story. Avevamo iniziato s’una spiaggia tetra, con un fuoco e lei che scrutava il mare. L’ultima immagine è un inquietante parallelo, che sembra uscito da un film gotico o dalla mente di Mary Shelley, con il droide, non più macchina ma non abbastanza umano, seduto sulla spiaggia dove stava la ragazza ora morta, pensando… già, cosa sta pensando?

Finale magnifico per l’antologia, a mio parere ideale per chiudere il cerchio anche del pezzo. Animatrix è un film perfetto? No, e credo ogni raccolta di corti sia imperfetta dal principio, il bello sta proprio nel disequilibrio di voci che è possibile trovarci. Ecco, credo sia il punto di forza maggiore di Animatrix, e quello che personalmente me lo fa considerare il migliore dei film di Matrix, ironico considerato che nacque come spin-off per l’home video, debitore di una saga molto più grande. Eppure eccoci qui, non credo che in questo mondo cinematografico si sia mai raggiunta una tale varietà di storie, estetiche, intuizioni, fantasia, critiche, e l’unico peccato è che non se ne siano fatti altri di prodotti così. Almeno abbiamo questa gemma, un viaggio per cui prenderei la pillola rossa senza esitazioni.


8 commenti:

  1. Purtroppo mi manca, ma recupero sicuro ;)

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  2. Di primo acchito ero rimasto colpito dalla bellezza e perfezione de L'ultimo Volo Dell'Osiris, però mi aveva lasciato un po' lì il finale così troncato, per cui pareva quasi un assaggio di un intero film. Poi rivedendo Animatrix una seconda volta ho apprezzato di più anche i successivi corti che in effetti avrebbero le potenzialità per essere sviluppati singolarmente. Ma a volte rimettere mano a qualcosa venuto bene può portare a pessime conseguenze (vedi i vari sequel e prequel di famosi film e saghe) perciò è meglio tenerlo così com'è 😊

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    1. Sì per carità, meglio tenere come sono i corti di Animatrix, non tutti i racconti sono adatti a diventare romanzi, anzi. ;) Ammetto però che vedrei volentieri un lungometraggio ambientato in Matrix da uno qualsiasi di questi registi.
      A parte forse proprio quello dell'Ultimo Volo, che purtroppo mi ha sempre detto poco ;)

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  3. Oddio ma che ricordi che mi hai riportato 😍🥰

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  4. Saluti Jean, è un piacere sia risentirti che averti causato delle reminiscenze ;) specie perché questa perla la conoscono in pochissimi se paragonata alla serie di cui fa parte.

    Sono curioso, avevi un episodio preferito?

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  5. Appendice che non si può assolutamente evitare per comprendere appieno la trilogia cinematografica. Di fatto gli Animatrix riempiono i tanto odiati "buchi di trama", che i detrattori del secondo e terzo capitolo sbandierano a destra e sinistra. I miei preferiti sono gli episodi diretti da Watanabe, ma comunque concordo con ogni singola parola dell'analisi dei vari anime.

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    1. Innanzitutto benvenuto, e grazie per aver commentato :)

      "Detrattori del secondo e terzo capitolo", eccomi! :D sì, non sono il più grande fan di Reloaded e Revolution, anche se non tanto per i buchi di trama, che sono l'ultimo dei miei problemi. Anzi tra i pregi dei sequel annovero il fatto che si reggano abbastanza sulle loro gambe, diversamente da molti film grossi di oggi che puoi goderti solo in gruppo, come fossero enormi puntatone di serie tv.
      Infatti Animatrix più che risolvere buchi risponde a delle omissioni dei film, tipo "come sapevano gli umani della trivella?" o "come ha fatto quel ragazzo a liberarsi senza pillola?", ma basta avere anche solo una vaga idea di Matrix per goderselo come antologia a sé stante. Per questo è così bello, specie quando gli autori possono sfogare la loro creatività in piena autonomia, come nel caso del giustamente citato A detective story ;)

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