30.8.19

Festival del Cinema di Venezia 2019 - Giorno 1 - 30 Agosto



LA VERITE'

di Kore-eda Hirokazu




CONCORSO
Filippo Tassinari

In seguito alla pubblicazione delle sue memorie, Fabienne, famosa attrice francese in avanzata età, riceve la visita della figlia Lumir, che fa ritorno da New York con tutta la famiglia. La biografia dell'attrice è il pretesto per far scontrare verità negate tra le due donne.
Il regista giapponese si cimenta per la prima volta in un film non girato in terra natale e con un cast euro/americano di prim'ordine: Juliette Binoche, Ethan Hawke e una eccezionale Catherine Denueve. Nonostante le difficoltà insite nel riuscire a bilanciare una pellicola lontana dalle atmosfere care a Kore-eda, il film non perde mai di grazia e delicatezza, suscitando una piacevole riflessione sulla figura femminile.

Voto: 6 e ½
PELIKANBLUT (pelican blood)

di Katrin Gebbe




ORIZZONTI

Filippo Tassinari Wiebke è una addestratrice di cavalli per la polizia e vive nel suo maneggio con la figlia adottiva Nicolina. Dopo lunga attesa riesce ad ottenere l'adozione di una seconda figlia, Raya di 5 anni. L'ingresso dell'ultima arrivata risulterà decisamente più problematico di quanto Wiebke si attendesse. Secondo lungometraggio per la regista di Tore tantz in cui il fulcro di tutto è la figura della donna/madre: una donna che non genera, ma che protegge i suoi piccoli e che non necessita delle figure maschili. Il film assume i tratti del dramma psicologico per poi prendere alcune deviazioni verso l'horror e il mistico, con richiami forti ad alcuni classici del genere.

Voto: 6
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Riccardo Simoncini

Il sangue del pellicano. Quello che, secondo la simbologia cristiana, la madre di questo uccello acquatico usa e dona per nutrire i figli morti e cercare di riportarli in vita. Un'immagine religiosa così cruda (e crudele) per rappresentare, secondo la religione, la totale abnegazione nell'amore verso i figli. Un amore estremo e straziante che risalta con forza fin dal titolo e che diventa metafora di quell'amore immondo che prova la protagonista Wiebke per le sue figlie adottive. L'uso, però, di immagine così violenta e destabilizzante non è casuale, perché Pelican Blood non è il classico dramma familiare, né tantomeno una commedia dove tutto è perfetto, ma tende invece (sopratutto verso il finale) verso quella corrente di horror autoriale che caratterizza molto cinema contemporaneo (primo fra tutti Ari Aster, il cui Hereditary presenta molti in comune). La famiglia di Wiebke non è di sicuro perfetta ed inizia a non esserlo da quando giunge in casa la seconda delle sue figlie adottive, Raya, che comincia ad essere aggressiva con tutti, anche nei confronti della sua stessa piccola famiglia. La bambina, infatti, è violenta, agitata, isterica ed inizia poco per volta a compiere azioni strane e pericolose, che contrastano ogni tentativo di integrazione nella famiglia e diffondono paura in chiunque venga a contatto con lei. Wiebke però ama le sue figlie, tanto, tantissimo, fin troppo. Ma come fare quindi a gestire (e contenere) il problema? Come riuscire a sopportare e resistere a quella violenza senza venire meno alla sua morale da genitore? La regista Katrin Gebbe ci aveva già illuminato con la sua disturbante opera prima Tore Tantz, il racconto di un ragazzo biondo, bellissimo (Tore appunto) che viveva dedicandosi agli altri attraverso la sua fede per Gesù (in maniera di nuovo estrema) e che per una concatenazione di eventi veniva ad esserne poco per volta travolto violentemente. I personaggi di Gebbe vivono sempre dilemmi: quello del fedele, del credente in Tore Tantz, quello della madre qui in Pelican Blood, condizioni accomunate da una morale ossessiva, da delle regole non giuridiche dettate dall’amore: per Gesù nel primo, per i figli nel secondo. Credere (ed avere fede) fino all’estremo in qualcosa che si sente profondamente come proprio, fino a renderlo ossessione. Crederci a tal punto da sacrificarsi in funzione di esso: sacrificare il proprio tempo, ma anche proprio il corpo, come il pellicano del titolo. Insomma un credo sfrenato, ossessivo, ostinato, difficile da capire e comprendere così come succedeva con la fede di Tore nel primo film. Ma nonostante tutti gli sforzi, la piccola Raya rimane riluttante, chiusa in un meccanismo di difesa e sopravvivenza che per alcuni è disturbo psicologico, per altri è una strana e maligna entità. Wiebke sacrifica tutto per essere madre, persino il suo lavoro come addestratrice di cavalli. Con questi ultimi è più facile stabilire un rapporto, trovare la fiducia, creare un’intesa, diventando complici nell’affrontare gli ostacoli. I cavalli sono, però, semplici animali, mentre gli uomini (e i bambini) possono a volte diventare mostri, difficili da addomesticare.


SEULES LES BETES (only the animals)

di Dominik Moll




GIORNATE DEGLI AUTORI Filippo Tassinari

Francia, una donna è scomparsa: dopo una tempesta di neve la sua macchina viene ritrovata vuota a bordo strada. Nessuno sembra conoscerla nè averne ma tutti hanno qualcosa che li lega alla sua scomparsa. Il film si divide in parti, in cui seguiamo ciascun protagonista della vicenda, ripercorrendo i giorni precedenti e successivi al misterioso evento, scoprendo i loro segreti e giungendo gradualmente alla verità. Un racconto che si attorciglia e cambia improvvisamente latitudine, acquisendo velocità e coinvolgimento attraverso i colpi di scena e lo spiazzamento dello spettatore.

Voto: 7

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Riccardo Simoncini

Aristotele scriveva: “L’uomo è un animale sociale.” Non sempre, però. Almeno non in questo film, dove tutti i protagonisti non sono sociali come diceva Aristotele, ma esseri umani profondamente soli. Uomini chiusi nelle loro esistenze, modellate su segreti inconfessabili. Vite di inganni, di aspetti intimi e nascosti, che non si vuole (e non si può) rivelare e manifestare e che, per questo, ruotano costantemente attorno alla finzione. Chiudersi in se stessi e nei propri segreti non può che condurre alla solitudine. E questi personaggi sono a tal punto soli che il regista Dominik Moll sceglie di dedicare ad ognuno di essi un capitolo a parte, perché solo in questa forma (quando interagiscono con il proprio io interiore) mostrano il loro carattere e la loro natura. Riprendendo stilisticamente un’impostazione narrativa e di montaggio che richiama la Trilogia della Morte di Innaritu ed Elephant di Gus van Sant, tutti questi capitoli (con le corrispettive storie intime e nascoste) vanno a costituire un puzzle misterioso e ricco di suspence che si rivela allo spettatore sotto forma di thriller man mano che egli procede nella visione. Le storie si sfiorano e si intersecano, a volte con cambi di scena eclatanti, a volte con semplici punti di collegamento delle vicende, anche se spesso, sopratutto sul finale, diventeranno fin troppo eccessive le coincidenze per essere plausibili. Da quegli incontri verranno forse alla luce segreti ed inganni che si celavano dieto l’apparenza di vite comuni e quasi perfette, dove i rapporti umani si erano ridotti al minimo. Ma non si può permettere che ciò accada. Quei segreti devono rimanere segreti. Lontani, nascosti, in modo che nessuna luce li possa illuminare e mostrare. Per riuscirci bisognerà sfruttare ogni mezzo, anche amorale, anche violento, anche estremo. Nessuno tanto capirà mai davvero cosa sia accaduto, perché nessuno conoscerà mai quei segreti nascosti. Perché nessuno ha voluto accettarli, perché nessuno è riuscito (o ha voluto) che l’amore implicasse una loro condivisione. Meglio tenere tutto per sé, ma almeno essere sicuri che i propri segreti siano chiusi in uno scrigno a chiave. Anche se poi quella chiave è andata ormai perduta. THE PERFECT CANDIDATE

di Haifaa Al Mansour




CONCORSO
Filippo Tassinari

Arabia Saudita, Maryam è una giovane dottoressa di un pronto soccorso, che purtroppo non ha una strada asfaltata per essere raggiunto. Il tentativo di partecipare ad un colloquio per lavorare in un ospedale della capitale, la porterà incredbilmente a candidarsi alle elezioni per il consiglio comunale. Un inno alla figura femminile e al suo difficile ruolo nella società saudita, dove le gesta della protagonista sono la speranza della regista de La bicicletta verde per una maggiore consapevolezza e libertà. Voto: 7 e ½
SOLE

di Carlo Sironi



ORIZZONTI
Filippo Tassinari

Ermanno è un giovane che vive di espedienti e ammazza le giornate tra slot machine e sala corse. Un giorno le viene affidata Lena: giovane donna polacca in dolce attesa. Lo zio di Ermanno e sua moglie non possono avere figli, così hanno organizzato di "comprare" quello della giovane. Ermanno dovrà fingersi padre del nascituro e controllare Lena. Interessante esordio in un lungometraggio per il 36enne regista romano: nonostante una drammaticità classica, il film acquisisce originalità grazie a scelte fotografiche e musicali non banali.

voto 6 1/2

Riccardo Simoncini

Cosa vuol dire essere genitori? Quali responsabilità ciò comporta? Amaro e crudele il fatto che il regista Carlo Sironi presenti a Venezia ora a settembre il suo film che si concentra sulla genitorialità, quasi un mese dopo la scomparsa del padre, Alberto Sironi, noto regista de "Il commissario Montalbano". Il rapporto col padre deve essere stato, indubbiamente, una fonte di ispirazione a cui attingere, ma non la sola, o meglio non sicuramente ai fini della trama. Perché la genitorialità e la responsabilità da essa derivata, di cui si accennava prima, non sono quelle ordinarie e consuete a cui si potrebbe pensare, quelle di famiglie esemplari ed universali. Al contrario si racconta di una storia al limite, ai margini di quello strano mondo che è la famiglia. In particolare, al centro di Sole, vi è una maternità surrogata, il cosiddetto "utero in affitto". Così la giovane Lena arriva in Italia per vendere la bambina che ha in grembo e cercare fortuna altrove. Ma la pratica, illegale in Italia, necessita di un intermediario per la famiglia affidataria. A questo serve Ermanno, che dovrà fingersi il padre così da poter poi fornire l’affidamento allo zio, intenzionato insieme alla moglie ad avere la figlia di Lena. Ma Lena e Ermanno sono giovani, giovanissimi, innocenti nei loro volti, incoscienti su ciò che li circonda. Non capiscono la genitorialità perché sono forse troppo giovani per desiderarla e quindi per provare ad esplorarla. Fingono di voler essere genitori, ma in fondo ne sono indifferenti, perché inconsapevoli. I loro volti sono infatti freddi, distanti, spesso apatici, ma tremendamente belli ed armoniosi nella loro purezza. Sono precisi nei tratti come fossero usciti da un quadro e come se il loro volto fosse stato disegnato a matita. E come fossimo in un quadro, la dimensione statica domina il racconto, privilegiando più la composizione che l’azione e concedendo spazio ai silenzi e al non detto, vero motore del film. Tutto è infatti misurato, controllato, non eccede mai, come Lena ed Ermanno, che rimangono sempre calmi e sempre attenti a non far trasparire emozioni. I contorni, le linee e le geometrie compongono con un assoluto rigore formale ogni scena ed ogni inquadratura di Sole. 

E dalla semplice linea di contorno, si passerà alla forma piena, così come si passerà da un’immagine di una bambina bidimensionale di un’ecografia a quella reale e tangibile in 3 dimensioni. Ma quando quelle linee di un figlio saranno così concrete, anche quelle dei genitori lo diventeranno. 
E le linee dei loro volti da apatiche di faranno espressive. 
E linee dei loro corpi da parallele si incontreranno. In un abbraccio.



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